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Beau ha paura (2023) – La recensione

Dopo due apprezzati alt-horror come Hereditary e Midsommar, Ari Aster alza l’asticella partorendo una surreale e ambiziosa odissea psico-horror di 3 ore. Una dark comedy dolorosa e sfuggevole, autoriale, ambiziosa e fortemente metaforica, prodotta coraggiosamente dalla A24 che si ripresenta al pubblico dopo il successo planetario di Everything Everywhere All at Once.

La trama ridotta all’osso è la storia di un uomo sciatto di mezza età che deve raggiungere la madre nel giorno dell’anniversario della morte del padre che lui non ha mai conosciuto. Ma alla fine Beau finirà per perdere il volo, l’inizio di un viaggio dantesco nella vita di quest’uomo.

Quindi Beau Is Afraid ruota attorno al rapporto tra il protagonista, bordeline, agorafobico, ipocondriaco, interpretato non senza devozione alla causa da Joaquin Phoenix e la madre Mona (Patti LuPone, da anziana e Zoe Lister-Jones da giovane).

Un rapporto morboso, ossessivo, di nuovo dopo quello del Joker di Phoenix, ma che in Beau ha paura diventa quasi un incubo demoniaco.

Come ha scritto il Times, questa figura materna è una sorta di gargoyle pop freudiano”. Cosa che ci riporta allo stereotipo della sionista castrante nella celebre battuta di Isaac Singer, protagonista di Manhattan di Woody Allen, ebreo newyorkese proprio come Ari Aster.

Idealmente, molto idealmente, Beau ha paura è una versione lisergica e horror delle ossessioni psicoterapeutiche di Woody Allen.

E a proposito di autori ebrei newyorkesi, un evidente rimando stilistico lo troviamo anche al capolavoro di Charlie Kaufman, Synecdoche, New York.

Sul piano interpretativo, più dell’esegesi stessa del film, sono chiare le intenzioni dell’autore, ossia quelle di farci fare un viaggio negli inferi della mente umana.

Da questo punto di vista se in Hereditary e Midsommar, l’elemento orrorifico era estroflesso, sociale o familiare, in Beau la paura dall’esterno, dalla famiglia, dalla madre, diventa in breve analisi introspettiva onirica e non.

Questi due luoghi reali e irreali, esteriorità e interiorità, si fondono tra loro, meravigliosamente fotografati dal collaboratore stretto di Aster, ossia Pogorzelski, con lui sin dai primi cortometraggi.

Prima parlavamo di Zoe Lister-Jones, ma c’è anche un’altra regina del cinema indie, questa volta anni ’90, di cui non saremo mai sazi, ossia la bravissima Parker Posey. Pretesto che mi porta a elogiare un cast superlativo, ovviamente su tutti Joaquin Phoenix, mai così fragile, così vulnerabile e nudo davanti allo spettatore, tanto da spingerlo a non invitare nessuno dei suoi affetti più cari all’anteprima del film.

Ma il vero protagonista è Ari Aster, regista che non è ancora sazio di shock, provocazioni e racconti divisivi, sin dai tempi del suo cortometraggio The Strange Thing About the Johnsons (il link per vederlo), ma che, rispetto ai primi passi, ha un sempre un maggiore controllo del mezzo cinematografico.

Aster è bravo nel mantenere costante un forte senso di straniamento, un’atmosfera fosca, caliginosa, un camouflage stilistico, quasi a voler rende il suo racconto inintelligibile ed equivoco soprattutto quando, nelle ultime battute, riflette sulla psicosessualità del protagonista.

Un film difficile e che difficilmente dimenticheremo.