“Sineddoche: procedimento linguistico espressivo, e figura retorica tradizionale, che consiste nel trasferimento di un significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità intesa come maggiore o minore estensione.” (Vocabolario on line Treccani)
Charlie Kaufman è uno degli sceneggiatori più apprezzati a livello globale, scrittore di film celeberrimi ed amatissimi come Essere John Malkovich di Spike Jonze o The Eternal Sunshine of a Spotless Mind (ci rifiutiamo di nominare l’aberrante adattamento del titolo in italiano) di Michel Gondry. Quando nel 2008 esordisce anche dietro la macchina da presa Kaufman assurge definitivamente a personalità fondamentale del panorama hollywoodiano, con Synecdoche, New York. Un film complesso e profondo, che si insinua nell’animo dello spettatore, proiettandolo al di fuori di sé e ponendolo dinnanzi alla propria miseria, “come in uno specchio”, per citare il titolo di un celebre film di Ingmar Bergman. Un cast straordinario, capitanato da un meraviglioso Philip Seymour Hoffman in stato di grazia, affiancato da attrici fenomenali come Emily Watson, Jennifer Jason Leigh e Samantha Norton, che si muovono comunque nell’ombra della fantastica interpretazione di Hoffman.
La storia che Kaufman racconta inizia con una parvenza di normalità, con un regista teatrale, Caden Cotard (Hoffman), che fa successo con una sua opera, la moglie pittrice (Katherine Keener) che deve andare all’estero, in Germania, per una propria mostra. L’uomo, però, comincia a soffrire di varie patologie in seguito ad un incidente con il lavandino del bagno, che lo ferisce in fronte. Grazie al successo ottenuto con il proprio adattamento di Morte di un Commesso Viaggiatore, opera di Arthur Miller, Caden ottiene un enorme finanziamento dal MacArthur Fellow Program, un premio annuale conferito ad artisti statunitensi che dimostrano uno spiccato ingegno nel proprio campo. Con questo denaro, il protagonista decide di realizzare una pièce vera che porti in scena la brutale realtà, un’opera immensa la cui preparazione, però, si dilungherà per circa vent’anni, assorbendo completamente Caden.
Non è l’aspetto tecnico, talvolta piuttosto carente, soprattutto nel montaggio non sempre di buona fattura, l’elemento più importante del film. Synecdoche, New York fa della scrittura e del concetto il proprio cuore. Il personaggio di Philip Seymour Hoffman e tutta la sua vicenda sono, per sineddoche (da cui il titolo del film), il ritratto dell’intera umanità contemporanea, un’umanità sola e sull’orlo dell’estinzione. Il cognome di Caden non è un caso: la sindrome di Cotard è una malattia psichiatrica tra le più rare e misteriose, per la quale l’individuo si considera già morto e privo di organi vitali e simili. Così è il protagonista, che ripete più volte di essere privo di vita, come se fosse un cadavere ambulante, già in putrefazione. Il suo corpo si deteriora sempre più con l’avanzare del film, da un semplice taglio sulla fronte causato da un incidente con un lavandino, infatti, si scaturisce una sequela di problemi fisici sempre più gravi, che accompagneranno Caden in tutta la sua esistenza. La perdita è il fil rouge che tiene uniti i pezzi della vita di Caden, dalla moglie che parte per la Germania insieme alla figlia senza mai più tornare alla morte della madre, fino alla perdita di vista del confine che separa la realtà dalla finzione. Lo spettacolo che vuole realizzare, infatti, si propone come un doppio del mondo, focalizzandosi sulla vita di Caden stesso: attori, dunque, interpreteranno il regista e tutte le donne della sua vita, il teatro di posa si trasformerà, a poco a poco, in una replica perfetta di New York; a sua volta, questa replica contiene un’altra replica, in una matrioska potenzialmente infinita. Gli attori si moltiplicano, i Caden, le Hazel e tutte le persone che hanno calcato il palcoscenico della vita del regista aumentano esponenzialmente, rendendo invisibile la linea di demarcazione tra Vero e Falso, tra Reale e Fittizio. Noi, il pubblico abituato ad essere onnisciente ed a riconoscere ciò che è vero da ciò che non lo è, ci sentiamo spesso confusi, il tempo e lo spazio si accartocciano come un foglio di carta in più di un’istanza, rendendo quasi impossibile sapere quando e dove una determinata azione stia avendo luogo.
L’esistenza mostrata da Kaufman ha solo due certezze: l’ambiguità e la morte. I personaggi spesso non si comprendono, capiscono “fischi per fiaschi”, effettuando così una duplice sottolineatura, sia sulla fallibilità della lingua, che dovrebbe essere la base di una società e dei rapporti umani, sia, di conseguenza, sull’incomunicabilità nella quale l’uomo contemporaneo sta sprofondando sempre di più. Ed anche quando riesce a comunicare, non ha il cuore per ascoltare: siamo egocentrici. Emblematica è, in questo senso, una scena verso la fine del film, nella quale qualcuno si butta da un tetto, davanti agli occhi di Caden, il quale non ha alcuna reazione per la morte dell’uomo ma continua a pensare a sé stesso. La visione del protagonista pare solipsista, tutto ciò che accade avviene solo in funzione della sua esistenza: il mondo che lo circonda è il mondo che lui crea per il suo opus maximum. Quale dei due è quello reale? Per quanto folle questa domanda possa apparire, più di una volta affiorerà tra i pensieri che, a poco a poco, si accumulano nella mente dello spettatore, che, come detto in precedenza, si ritrova a fronteggiare sé stesso in questo specchio chiamato Synecdoche, New York. Non si tratta di un film su un regista teatrale, né un film su Kaufman, come molti hanno detto. Synecdoche, New York è un film sulla nostra miseria, la mia, quella dei miei genitori, la tua. Sì, anche la tua, di te che stai leggendo questo articolo. Caden Cotard non è solo un regista teatrale, non è solo il personaggio di un film. Caden Cotard è tutti noi. Proprio come in una sineddoche.
“Caden Cotard is a man already dead, living in a half-world between stasis and anti-stasis. Time is concentrated and chronology is confused for him. Up until recently he has strived valiantly to make sense of his situation, but now he has turned to stone.” (Millicent Weems, Synecdoche, New York)