Hereditary è il titolo del debutto cinematografico del regista statunitense Ari Aster, presentato al Sundance Film Festival 2018.
Aster non ha soltanto diretto il suo esordio horror, ma è anche autore della solida sceneggiatura. Hereditary è stato protagonista, fino alla sua uscita nelle sale cinematografiche, di una campagna pubblicitaria molto prorompente.
‘‘Film più spaventoso dell’anno”, ”L’esorcista della nuova generazione’‘. Tali affermazioni critiche hanno alzato molto le aspettative negli spettatori. Solitamente, quando un prodotto cinematografico viene esaltato in tal modo, c’è da aspettarsi una reazione delusa, imbronciata, insoddisfatta.
Ma questo è davvero il caso di Hereditary?
Ellen Graham, anziana madre di famiglia, è appena deceduta assieme alla sua turbolenta esistenza. Al suo funerale vi sono amici, conoscenti, parenti, nipoti. Tra di loro sua figlia Annie (una strepitosa Toni Collette), intenta in un elogio funebre. Il rapporto con sua madre è sempre stato contorto: lei era contorta. Una donna che sapeva essere dolce nei momenti più intimi, ma che nascondeva tanti segreti. Tra i tanti, quello di essere legata al mondo dello spiritismo.
Dal decesso della matriarca Graham, cominceranno a susseguirsi una serie di eventi disastrosi, quasi surreali. Annie sarà protagonista di varie perdite, dopo aver perduto già in passato suo padre, suo fratello e sua madre a causa di malattie mentali.
L’oscurità incomberà su di lei e sulla sua abitazione, trascinandola in un punto di non ritorno.
Hereditary non è un film semplice, non è un’opera prevedibile, né ciò che il pubblico si aspetterebbe. L’astuzia di Aster sta proprio in questo, nel mostrare dei tasselli del puzzle, confusi e quasi frustranti, per portare lo spettatore in una direzione… col fine di smarrirlo. E ci riesce. Difatti Hereditary, dall’inizio dei suoi 127 minuti, è costituito da un forte senso di angoscia, di claustrofobia psichica. Poche sono lo visioni in grado di causare tale malessere, tale mal di vivere.
Il debutto di Ari Aster è in grado di farlo, di trasportare colui che vede in una dimensione surreale, dove il maligno è metafisico, dove il malessere è un’entità a parte che alberga nell’aria.
Dove ogni dolore, ogni morbosità, si celano inizialmente dietro l’essere umano, per poi teletrasportarsi all’esterno, divenendo reale, percettibile: imbattibile.
Ari Aster mette in scena un lavoro notevolmente ambizioso, riuscendo, nel bene e nel male, a scardinare delle regole ben imposte nel mondo dell’orrore. Lo fa non seguendo i parametri stilistici tipici del suo paese, ma imparando più da classicismi horror propri della visione orrifica Europea.
L’atmosfera incombente, opprimente e quasi ossessiva, può rammentare l’oscurità sempre nell’ombra di Darkness di Jaume Balaguerò e l’alone di tensione di Shining di Stanley Kubrick . Non a caso, Toni Collette rammenta vagamente la figura esile della Shelley Duvall dell’epoca, seppur una sia schiava e vittima della paura, l’altra di un male ereditario. Hereditary è talmente vasto e ben amalgamato, da poter essere accostato a colossi come Rosemary’s Baby, da cui attinge molto soltanto in parte.
Perché esso è un’opera che prende elementi di vitale importanza dai suoi predecessori, per mescolarli in maniera efficiente e astuta in un nuovo e raffinato mix di inquietudine, paure recondite e inaspettate.
Difatti Hereditary non assomiglia a nessun altro film, rientrando così in una categoria che gli spetta: quella degli horror più originali e ben realizzati degli ultimi anni.
Come Kill List di Ben Wheatley, l’opera segue una linea narrativa per tutta la prima, soffocante, parte. Questo per poi cambiare totalmente (e in modo stupefacente) il suo registro, trascinando chi è ancora con una sensazione ansiogena interiore (dovuta ai primi quaranta minuti di film), in un mondo completamente insperato.
Un mondo dove chiunque deve prestare attenzione a non fidarsi degli altri, nemmeno di sé stesso e dei propri cari, i quali tramano nell’ombra un futuro già predestinato.
Ma Hereditary è anche ben altro: è un’impresa drammatica, il peso esistenziale che ognuno di noi porta gravemente sulle proprie spalle. Con una visione costantemente pessimista dell’essere umano (vittima e carnefice di sé stesso, manipolato e manipolatore), l’incubo vitale fa spazio a quello astratto che carpisce la propria individualità.
Si possono affrontare i dilemmi e le piaghe della vita, ma non si può scappare da ciò che è stato già scelto.
Ciò lo si impara dalle scene in cui il rimorso, la rabbia, la repressione e la desolazione fanno da padroni. I sentimenti negativi qui si impadroniscono della poca forza rimasta ai personaggi così sfortunati e disgraziati dell’opera. Proprio gli stessi che temono il confronto con l’altro e con la responsabilità, non essendo preparati però a qualcosa di peggiore.
La vita è imprevedibile, Hereditary ne è la dimostrazione più ovvia.
Pur possedendo lievi incongruenze, è costruito in maniera considerevole, con un crescendo di tensioni, pene, angosce e suggestioni. La lentezza iniziale permette di addentrarsi, a mano a mano, in un vortice di terrore, di paure psicologiche e di costruzioni esoteriche. Seppur sia un’opera sopra le righe, è talmente imperniata su un concetto vivo, mero, di orrore da rendersi, inconsapevolmente, superiore ad ogni altro prodotto del genere.
La paura non è sinonimo di futili e costruiti jumpscares e questo il regista statunitense lo ha imparato bene, lo ha messo in pratica e lo sta insegnando ai più superficiali.
Aster dimostra così alla totalità di persone, che l’horror vero è quello che ti opprime, che ti entra dentro. Quello che non ti abbandona più, che ti scuote e domina i tuoi pensieri anche a distanza di tempo.
Tutta la malignità, l’efferatezza e il vaneggiamento, lasciano poi, qui, il posto a un epilogo epocale, teatrale, spirituale e liberatorio. Arrivano poi l’espiazione e la libertà, ma solo con la reale accettazione del male inumano. Perché a volte non si può far a meno di ricorrere al sacrificio.