Se ne parla ovunque. Si ricorda già il suo nome come fosse quello di una nuova entità divina nell’universo filmico contemporaneo. Lo statunitense Ari Aster, con all’attivo sei cortometraggi, un mediometraggio e due film, ha già conquistato un posto importante nell’Olimpo cinematografico.
Nato nella Grande Mela nel 1986, diplomato in regia all’American Film Institute. Ari Aster non solo è il regista di tutti i suoi lavori, ma ne è anche lo sceneggiatore. Bizzarro come lo stesso bambino di quattro anni che, al cinema, balzò sulla sedia guardando Dick Tracy, possa essere ora, a soli trentatré anni, uno specialista dello shocking.
Il primo lavoro di Ari Aster arriva nel 2011 con un mediometraggio conturbante e disperato: The Strange Things About The Johnsons. La vicenda narrata è quella di una tradizionale famiglia americana che si ritrova ad affrontare i propri scheletri nell’armadio. Sin dall’opera prima di Aster traspare la voglia innata di farsi beffe della società americana. Di tutta la bigotteria in essa intrisa. La stessa che cela e genera i più profondi orrori e le più condannate anomalie.
Segue Beau, un cortometraggio di circa sei minuti girato in un solo giorno. Billy Mayo (già tra i protagonisti del lavoro precedente) torna come attore principale. Beau mostra un uomo andare in paranoia quando, un giorno, si accorge del furto delle proprie chiavi di casa.
Interessante è il silent film Munchausen, presentato a vari Festival tra cui il Sundance, e ispirato ai lavori Pixar. Privo di dialoghi e dotato di un’impronta più sperimentale rispetto ai suoi ”fratelli”, Munchausen analizza gli ossessivi legami familiari. Il successivo Basically appare più diretto, più ”narrato” e in stile documentaristico. The Turtle’s Head vede il ritorno delle ossessioni legate alla sfera sessuale. Vantando della notevole performance di Richard Riehle, il corto si focalizza su un particolare caso medico di ininterrotta fimosi. Il ciclo di cortometraggi si conclude con C’est La Vie, un nitido quadro della vita di un senzatetto.
Un indiscusso elevato talento registico e di scrittura, eppure la più grande abilità di Aster è un’altra. Mescolare sapientemente il dramma e il grottesco con l’orrore, attraverso uno stile decisamente british. E, soprattutto, di fare suo tratto distintivo il coraggio di osare, tastando temi delicati e immergendoli nella perversione più primitiva.
Ogni lavoro di Ari Aster appare come un tassello importante per designare il processo creativo che l’ha portato a maturare registicamente e narrativamente, dal primo disturbing drama fino ad arrivare al grande esordio con l’horror atipico Hereditary, interpretato da- sopra tutti- una fenomenale Toni Collette.
Nell’opera di Aster è palpabile l’influenza, da lui stessa dichiarata, a film di culto del passato. Si va da Don’t Look Now (il decesso della figura infantile), Rosemary’s Baby (il complotto esoterico), a Carrie (le espressioni ”infernali” della Collette). Hereditary si classifica come una delle opere più incisive e potenti del ventunesimo secolo.
Per fortuna, Aster non ha tardato il continuativo shock sul pubblico, facendo uscire nelle sale quest’anno il suo secondo horror: il folkloristico e altrettante potente Midsommar.
Il mondo esposto da Ari Aster è un mondo imperniato dal peccato, dall’ipocrisia sociale, da famiglie perfette-imperfette. La borghesia viene eradicata dalla propria esemplare apparenza e messa completamente a nudo e, tra omicidi consumati dalla disperazione, complessi edipici, legami maniacali, incesti, sette e sacrifici umani, il regista newyorkese ha dimostrato che la normalità e la morale, soprattutto in circostanze in cui è consueto predicarle, non esistono. E si spera lo faccia per altri vent’anni.