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Praised be – sia lode a The Handmaid’s tale

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-Recensione a cura de La Sposa-

È davvero difficile descrivere la complessità di una serie così ben realizzata come “The Handmaid’s Tale”.

Innanzitutto c’è da fare un plauso alla piattaforma streaming HULU, perché non sbaglia davvero un colpo. Azzecca infatti il progetto, adattando l’omonimo romanzo del 1985 di Margaret Atwood sebbene sia già stato portato sul grande schermo negli anni Novanta. Azzecca il cast e la produzione, affidando il tutto alla regia della talentuosa Reed Morano e scegliendo attori capaci e perfetti come Joseph Fiennes, Samira Wiley o Yvonne Strahovski. In cima, si erge la protagonista Elisabeth Moss, fresca vincitrice a Cannes e non nuova al grande pubblico grazie alla sua Peggy Olson di Mad Men e qui in veste anche di produttrice insieme alla Atwood.

Azzecca le modalità di fruizione, perché HULU non è Netflix ed il rilascio della serie avviene un episodio alla volta, lasciandoti appeso alle atmosfere vuote ed angoscianti della Repubblica Totalitaria di Gilead.

Ma in generale si potrebbe affermare che HULU azzecca ogni singolo fotogramma di “The Handmaid’s Tale” (in italiano “Il Racconto dell’Ancella”). E consapevole di questo, dopo appena i primi due episodi comunica di aver già in cantiere una Season 2 ricca di sorprese.

Ma facciamo un passo indietro, partendo dalla genesi. “The Handmaid’s Tale” è una distopia: in un futuro non troppo lontano l’inquinamento e l’avvelenamento delle risorse ha portato il mondo non sull’orlo di una catastrofe ambientale ma prettamente umana. La crescita del pianeta è pari a zero, non nascono più bambini. In questo contesto un gruppo di fondamentalisti religiosi di stampo cristiano innesca un colpo di stato, scatenando una guerra civile ed instaurando sulle rovine degli Stati Uniti d’America un nuovo ordinamento, la Repubblica di Gilead, basata sui precetti biblici. Nel neonato sistema le donne vengono private di ogni diritto, e quelle più giovani e fertili sono condannate a diventare Ancelle, proprietà dei Comandanti – i signori di Gilead, il cui unico scopo di vita è la procreazione. L’esistenza delle Ancelle è scandita da celebrazioni, rituali, cerimonie, perché in loro vengono risposte le speranze di vite create. Inconfondibili nelle loro vesti rosse, vengono protette come si protegge un grembo, un fiore delicato in attesa che si schiuda. Ma la vita delle Ancelle è principalmente una schiavitù che deve soggiacere alla violenza, alla solitudine, al terrore di denunce alla polizia segreta (gli “Occhi”) che potrebbe inviarle alle Colonie, luogo senza più ritorno. Inoltre, le ancelle perdono tutto: ogni affetto, ogni legame alla loro vita precedente. Persino il loro nome, sostituito da una mera appartenenza al proprio comandante.

Lo spettatore si immerge in tutto questo grazie gli occhi di June/Difred (Moss), diventata ancella della famiglia Waterford dopo una tentata fuga dove suo marito Luke (O. T. Fagbenle) è rimasto gravemente ferito e la figlia Hanna le è stata strappata via, presumibilmente per essere data in adozione alla famiglia di qualche Comandante, riempiendo il vuoto di un matrimonio sterile. Ma fin dal primo episodio siamo immediatamente circondati dalle atmosfere di Gilead poiché “The Handmaid’s Tale” nasce in medias res, con la storia che si svilupperà costantemente sulla doppia linea temporale del presente e del passato, grazie a lunghi flashback che mostreranno l’Avanti Gilead e il Dopo Gilead.

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Gli episodi di questa prima stagione, purtroppo, sono solo dieci. Ma ognuno può definirsi un gioiello di regia, montaggio e recitazione. “The Handmaid’s Tale” è, in primis, il racconto di una donna visto con gli occhi di donne: alla Morano, infatti, nel corso della stagione si avvicenderanno solo registe (eccezion fatta per due episodi, girati dall’inglese Mike Barker). Non c’è sigla d’apertura – in controtendenza con le serie cult degli ultimi anni, ma l’inizio è scandito soltanto dal nome della serie nei colori iconici, il bianco ed il rosso. Gli interpreti sembrano costantemente impegnati in una gara di bravura, alzando ogni volta l’asticella della difficoltà: e se Elisabeth Moss è autentica mattatrice della serie, con la sua Difred intensa e determinata che regge spesso sola interi episodi grazie all’uso di lunghi soliloqui fuori campo (“Nolite te bastardes carborundum” ne è un esempio), è vero anche che nessun campione spicca se intorno la squadra non fa il suo dovere. Pertanto l’intero popolo dell’Ancella regala interpretazioni incredibili, da Joseph Fiennes (sempre una garanzia) alla tostissima Moira di Samira Wiley, già conosciuta dagli abbonati Netflix per il suo ruolo in “Orange is the new black”, passando alle sorprese rappresentate da Max Minghella, dall’enorme Yvonne Strahovski (non riuscirete a non odiarla dopo il climax della season finale) e last but not least da Alexis Bledel, la quale sotterra Rory Gilmore e le madri per amiche a colpi di badilate in faccia.

La costruzione di ogni puntata è una geometria consapevole, con almeno un momento epico in ognuna sapientemente costruito dall’uso di scelte registiche pregiate o dall’introduzione di un elemento musicale tanto dissonante dal contesto da risultare perfetto: ecco allora l’unico, terrificante piano sequenza che ci mostra le sorti di un’ancella traditrice, o “Heart of Glass” dei Blondie languidamente riarrangiata a far da sfondo ad una rivolta finita nel sangue. O la fiera marcia delle ancelle accompagnate dalla voce graffiante di Nina Simone e della sua “Feeling Good.”

Ma se ognuno di questi elementi citati costruiscono, intersecandosi, il successo della serie, la vera carta vincente, il canto di sirena di “The Handmaid’s Tale” è svelarci come questa distopia sia così prossima a noi da togliere il fiato.

E ad ogni episodio possiamo affermare di assistere ad un’esperienza che si sviluppa su più livelli: il primo, il più superficiale ed eclatante, costituito da immagini, colori, suoni. Interpretazioni di attori in stato di grazia. Scendendo quindi in profondità, con le emozioni che scavano, toccano, ti permettono di empatizzare con i personaggi. Ma è l’ultimo livello, il più profondo e più inconscio, a legarti, a scardinarti l’anima. Lavorando come ultrasuoni invisibili e incomprensibili all’orecchio teso, eppure astrazione paradossalmente percepibile che ti entra dentro e ti lascia annegare in un mare magnum di sensazioni contrastanti, di realizzazioni, di paure ma anche di speranze grazie al feroce fuoco ribelle che arde in Difred.

La Moira di Samira Wiley, parlando con June, dichiara che “Nothing changes instantaneously: in a gradually heating bathtub you’d be boiled to death before you knew it”.

Perché il mondo in cui le protagoniste si muovono è pari al nostro, identico a quello in cui viviamo ora. Lontano eppure tangibile, qualcosa che l’attualità ci sta già mostrando. Finto, ma reale. Forse, incredibilmente vicino.