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Copenhagen Cowboy – La Recensione

Copenhagen Cowboy ha come protagonista Mìu, una giovane minuta ragazza androgina dal passato misterioso che apre la prima puntata entrando in casa di Rosetta, mafiosa serba che insieme al fratellastro albanese gestisce un giro di prostituzione illegale dove giovani ragazze compatriote raggiungono la Danimarca e la villa dei 2 fratelli con la promessa di diventare modelle, per poi essere private dei documenti e di qualsivoglia diritto umano per essere ridotte in schiavitù sessuale.

 

Mìu ha la fama di essere un portafortuna, e Rosetta l’ha voluta con sé per rimanere incinta.
Quando tuttavia si convince che non possa aiutarla, comincia a considerarla una maledizione di cui disfarsi.
Per fare ciò si servirà del fratello e del suo giro di affari.

 

Composta da 6 episodi, Copenhagen Cowboy si sviluppa in scenari sempre diversi che è difficile recensire senza rischiare di cadere nello spoiler.
Come in tutte le opere di Nicholas Winding Refn il tema cardine è la vendetta.
Le atmosfere sono fortemente vaporwave, con neon viola e blu che contraddistinguono l’estetica del regista.
La cosa strana è che lui dichiari di essere daltonico, anche se non completamente: pare infatti che non riesca a vedere le sfumature tenui.
Ed ecco che i colori del suo cinema si fanno forti e violenti, come sono i suoi film, rendendo i colori metatestuali e che ben accompagnano le storie disturbanti.

Come al solito i tempi sono dilatati.
C’è una forte attenzione alla fotografia e alla colonna sonora, che stavolta stranamente non è affidata principalmente a Cliff Martinez ma anche ai notevoli Julian Winding (figlio di Brigitte Nielsen) e Peter Peter, che riescono comunque a creare un’ottima atmosfera cupa, di tensione, penetrante e con musicalità elettroniche che ricordano gli anni ‘80.
I personaggi sono ben costruiti più che nella psicologia nell’immagine, sia fisica che emotiva.
Il tutto unito alla cura per l’estetica di NWR si trasforma in quadri, opere d’arte in movimento.

 

Mìu, mentre si imbatte in molteplici scenari anche sovrannaturali, è impegnata a vendicarsi contro chi ha fatto del male a lei o a chi le è caro e a salvare oltre ogni possibile immaginazione (cadendo nell’impossibile) a mosse di kung fu le poche persone incontrate  che l’hanno trattata bene lungo il suo cammino.
Esile come un fuscello, mite e taciturna, è capace di trasformarsi in una tigre letale se è necessario.
In questo Rosina aveva ragione: Mìu è al contempo una benedizione ed una maledizione.
Per tutta la serie veste una tuta di un blu acceso, un richiamo sia ai picchiatutto dei videogame che ad un’altra eroina femminile dedita alla vendetta: Uma Thurman in Kill Bill.

Un tema ricorrente è quello dei maiali.
Tutti i protagonisti negativi infatti se ne servono per disfarsi dei cadaveri.
La loro presenza si fonde così tanto con alcuni personaggi al punto che essi non parlano: grugniscono.
Un escamotage che lascia di stucco, ma al contempo rende fortemente il parallelismo che il regista vuole trasmettere.
Le grida suine a volte sconvolgono più di quelle umane o delle scene crude (che non mancano).

Refn manifesta nel contesto di uno dei personaggi chiave un’ ossessione per la considerazione di superiorità che gli uomini si autoconferiscono grazie al pene per giungere alla castrazione in favore della donna, qui impersonata da una femminilità torbida ed esoterica che ristabilisce gli equilibri.
Ci sono autocitazionismi, tra cui il più evidente sono i riferimenti a Solo Dio Perdona (nelle scene di thai boxe della mafia cinese), e citazioni da altri film, come l’avvocato Milo di Pusher.

Non mancano anche due camei dove il regista appare chiaramente ma non parla.
Nel percorso narrativo di Refn sembra che la forma prenda il sopravvento sulla sostanza, lasciandosi trasportare dalla ricerca di echi Lynchiani e soprattutto dalla voglia di illustrare i personaggi come quadri viventi, perdendo interesse nel raccontare la storia in un modo lineare, con logica o con qualsivoglia senso, soprattutto verso gli ultimi episodi.

Il risultato è un bellissimo flusso audiovisivo più simile ad una performance artistica che ad una serie, dove quindi il gusto per l’estetica e per l’idea scavalca l’aspettativa dello spettatore di un senso logico e compiuto.

Copenhagen Cowboy è disponibile in streaming su Netflix.

Articolo a cura di Gea Gatti