Home Speciale Interviste Cinema e dintorni: un’intervista con il professor Dario Tomasi

Cinema e dintorni: un’intervista con il professor Dario Tomasi

Innanzitutto, voglio ringraziarLa per il tempo che ha deciso di dedicarci. Cominciamo con le domande più banali: quando e come è nato il Suo amore per il cinema e per il cinema asiatico? E come è maturata la Sua scelta di intraprendere la carriera di storico e studioso del cinema?

Oddio… negli anni Sessanta, quelli della mia infanzia e preadolescenza, si svolgevano a Torino il Salone della tecnica e della Montagna e quello dell’Automobile. Durante tali manifestazioni la Rai mandava in onda dei film di mattino, solo per Torino e zone collegate. Fu proprio vedendo quei film, negli ultimi giorni delle vacanze scolastiche, che nacque il mio amore per il cinema. Davanti a lavori come I 400 colpi e alla serie del professor Quatermass,  scoprii davvero un altro mondo. Fu forse anche allora che si avviò il mio amore per il cinema giapponese, guardando I sette samurai, certamente l’edizione tagliata, di cui mi colpì soprattutto la scena in cui, a culo pressoché nudo, Mifune Toshiro catturava un pesce in un ruscello. Verso i sedici anni, poi, quando vivevo in un paesino del Canavese, mi capitava la domenica pomeriggio di prendere il motorino e andare a Ivrea, e una volta mi infilai a caso in un cinema dove proiettavano Cinque dita di violenza: fu un’altra esperienza sconvolgente, lì capii davvero come un film poteva appassionarti sul puro piano dell’azione e farti dimenticare per 80 minuti tutte le tue ansie adolescenziali. Il resto accadde poi all’Università, quando iniziai a seguire con grande passione i corsi di Guido Aristarco e Gianni Rondolino, insieme ai seminari di Paolo Bertetto.

Nella Sua biografia si può leggere che ha vissuto in Giappone, dal 1988 al 1990. Quanto è stata importante per Lei quest’esperienza, sia a livello professionale che personale?

La sola opportunità di aver potuto vivere per due anni in Giappone, supportato da una buona borsa di studio, è cosa che da sé ti segna. Come passavo il tempo? Soprattutto andando al cinema, a vedere qualsiasi film di produzione giapponese. Inoltre mi comprai due videoregistratori e, noleggiando Vhs in tutta Tokyo, riversai all’incirca 500 diversi film che mi spedii in Italia (una volta la dogana mi convocò sospettando si trattasse di materiale pornografico), fermamente deciso, una volta rientrato in Patria, a continuare a lavorare sul cinema nipponico. A livello personale? Lasciatemi salutare Setsuko, la mia prima e unica donna giapponese, quella che mi fece conoscere i Love Hotel. Per quel che riguarda il ritorno in Italia nel 1990, devo dire che fui fortunato, perché potei organizzare insieme a Marco Müller, la retrospettiva sulla Nouvelle Vague giapponese per il Festival Internazionale Cinema Giovani (ora Torino Film Festival).

Io scrivo per un sito di cinema e, come quello con il quale collaboro, ne esistono a migliaia. Come vede, da studioso, questo fenomeno delle webzine cinematografiche (e non solo cinematografiche) e della “critica amatoriale”?

Credo sia un fatto importante che permette a molti giovani di avviarsi autonomamente all’attività critica. Anche se a volte non mi piacciono certi toni sentenziosi e una certa presunzione. Sarebbe meglio sforzarsi di capire prima cos’è un determinato film anziché dover subito esprimerne dei giudizi al suo riguardo.

Sono anni, ormai, che c’è una costante lotta alla pirateria, fenomeno senz’altro dannoso per il cinema e per l’arte in generale. Tuttavia, in certi casi, l’unico modo per reperire certi film pare essere proprio il download illegale. Penso, ad esempio, ai film di Lav Diaz, praticamente impossibili da reperire in modo legale, non essendo distribuiti in dvd, almeno non da noi (ovviamente, la mia non vuole essere un’apologia della pirateria). Qual è il suo pensiero in merito?

“No Pirates, No Party”

Il cinema orientale, presso il pubblico “medio”, non è mai visto come qualcosa di affascinante ma come un cinema da snobbare ed evitare. Per esperienza diretta posso dire che molte persone ignorano il cinema orientale perché “sono cinesi”: secondo me, alla base di questo snobismo v’è un “razzismo cinematografico” di fondo. Lei cosa ne pensa?

Non saprei. Non credo si tratti di razzismo, quanto di mancanza di abitudine. La pigra distribuzione italiana ignora esplicitamente il cinema orientale, contrariamente a quello che avviene in Francia, e così il pubblico italiano manca della necessaria consuetudine.

L’occhio dello studioso ed esperto di cinema, quale Lei è, come vede il panorama cinematografico contemporaneo?

Direi che, salvo alcuni casi, quel che d’interessante accade nel cinema contemporaneo va cercato fuori da Hollywood.

Cosa pensa dei festival cinematografici e della tendenza di fischiare film decisamente meritevoli? Celebri sono i casi di The Neon Demon di Nicolas Winding Refn e di Madre! di Darren Aronofsky, entrambi accolti molto male nei grandi festival. Qual è il suo parere in merito?

Sono dalla parte di coloro che ritengono che il lavoro altrui andrebbe sempre e comunque rispettato. The Neon Demon a me ha irritato, ma mai mi sognerei di fischiarlo. Certe cose meglio farle – se proprio si deve – allo stadio.

“Non ho mai visto un film asiatico, da dove dovrei partire?”: cosa risponderebbe se qualcuno Le facesse questa domanda?

Bisognerebbe vederlo in faccia questo qualcuno e capire che tipo di cinema – orientale o no – potrebbe amare. Optando per un approccio morbido, potrei suggerire film come Lanterne rosse, Rashomon, Viaggio a Tokyo, Hanabi, In the Mood for Love  o The Killer. E certamente un Kore-eda Hirokazu. Altri film e autori, come Oshima Nagisa, Imamura Shohei, Hou Hsiao-hsien o Tsai Ming-liang, li lascerei per uno stadio successivo.

Addentriamoci un po’ più nella questione cinema orientale. Qualche tempo fa ho visto Kaili Blues di Gan Bi, che ho trovato molto interessante, soprattutto considerando la giovane età del regista: saprebbe darci qualche indicazioni su giovani registi orientali da tenere d’occhio? E, in generale, com’è la situazione del cinema dell’Estremo Oriente contemporaneo?

Ho l’impressione che da un po’ di tempo manchi il capolavoro (o l’autore) trainante, quello che mette d’accordo (quasi) tutti, sia fra la critica, sia fra il pubblico, e riesce così a suscitare l’interesse necessario affinché altre opere possano venire a galla. Alcuni grandi nomi sono, mi sembra, in una fase calante, di ripiegamento su se stessi e fra i tanti giovani interessanti, nessuno è ancora riuscito a fare il grande salto. Mi spiace poi dirlo ma fra le cinematografie dell’Estremo oriente quella messa peggio credo sia la giapponese. Spero presto qualcosa possa smentirmi. Ciò che comunque più mi irrita è la corsa al blockbuster sul modello hollywoodiano, tendenza purtroppo imperante nella Cina contemporanea. Al contrario apprezzo il lavoro di sostegno del cinema sudcoreano, nonostante i suoi innumerevoli blockbuster, nei confronti del cinema indipendente.

Ormai è qualche anno che un autore fondamentale del cinema dell’Estremo Oriente come Tsai Ming-liang ha deciso di ritirarsi da regista di lungometraggi. Lei come ha preso la sua scelta di interrompere la propria carriera da regista? E secondo Lei, si sente la mancanza di una figura come la sua nel cinema degli ultimi anni?

Dopo il bellissimo Stray Dogs del 2013 ha realizzato alcuni cortometraggi. Non credo che un regista debba per forza fare un film lungo all’anno e neanche ogni 2 o 3. Tsai Ming-liang è uno dei pochi autori del cinema contemporaneo per cui fare un film è innanzitutto riflettere davvero sull’uomo e sul mondo, prima di pensare al rapporto col pubblico. Va bene così.

Se dovesse individuare delle figure chiave nel cinema contemporaneo, orientale ma non solo, quali sarebbero? E perché proprio loro?

Guarda mi limito all’area dei film nelle lingue cinesi, giapponese e coreana (così lascio da parte il tuo amato Diaz), e non so se posso parlare di figure davvero chiave. In Giappone Koree-eda Hirokazu e Kawase Naomi fanno dei buoni film cui però manca lo scatto in avanti. Kitano Takeshi segue con rigore un suo percorso ma per amarli i suoi film devi un po’ farteli piacere a forza. Sono Sion e Miike Takashi alternano alcune cose interessanti (poche) ad altre che francamente sarebbe meglio non vedere e i registi dell’ultima generazione (salvo pochissimi) hanno abbracciato troppo presto la logica di un cinema più commerciale. In Corea, Kim Ki-duk è un autore che mi sento in dovere di difendere (ma già il doverlo fare non è un buon segno), Lee Chang-dong è scomparso, Park Chan-wook è davvero ormai un ‘sarto’,come direbbe il mio amico Andrea Pastor. L’unico che continua a sorprendermi è Hong sang-soo che mantiene una scrittura sua e originale ed è in grado davvero di rappresentare ciò che l’uomo è, in tutta la sua bellissima mediocrità. In Cina meglio tacere su Zhang Yimou e Chen Kaige, per non parlare di Zhang Yuan, per fortuna a raccontarci davvero del Paese c’è ancora Jia Zhang-ke… Del taiwanese Tsai Ming-liang si è già detto e come lui anche Hou Hsiao-hsien mi sembra essere piuttosto in difficoltà… Voglio essere comunque ottimista e spero che fra le nuove generazioni qualcuno sappia davvero emergere, e non dico solo con uno o due film interessanti…

Come iniziato, così vorrei concludere, con due domande piuttosto banali. La prima: cosa consiglierebbe a chi vuole intraprendere una carriera da storico del cinema? Come ci si approccia ad un lavoro di questo tipo?

Vedendo film. Vedendo film. Vedendo film. Provando a scriverci . E leggendo buoni libri (e buone riviste) di cinema.

Per concludere, ha progetti per il futuro? Libri sui quali sta lavorando e di cui può anticipare qualcosa?

Temo di aver messo da parte il progetto di scrivere – pensando soprattutto agli studenti dei miei corsi – un manuale introduttivo sulla storia del cinema dell’Estremo Oriente cui lavoravo da anni, perché mi sono reso conto che la sintesi non è una delle mie armi.  Mi orienterò verso l’analisi dei film (orientali e no), che è più nelle mie corde.