Stiamo parlando del secondo film del regista israeliano Samuel Maoz.
Due centri nel bersaglio.
Foxtrot tratta sopratutto dei temi dell’assurdità esistenziale e della morte, di argomenti insomma sostanziali nella vita.
Ma trattati in un modo inconsueto veramente originale.
Le prime scene affondano nel terreno pesante dove la violenza è di casa.
Stiamo parlando dell’apparato militare israeliano.
La famiglia protagonista della pellicola subisce un grave lutto.
Il figlio non ce l’ha fatta, è caduto in servizio.
Il programma prevede un protocollo ben preciso con la presenza di un addetto gentile ma convenzionale che dovrebbe preparare i familiari alla cerimonia di commiato.
Mentre la scena dell’iter burocratico procede un primo piano studiato ad hoc inquadra il padre (Lior Ashkenazi).
Compare sul suo volto il profondo dolore che si tramuta in rabbia irrefrenabile a causa della risposta inconcepibile che riceve.
Non gli sarà possibile vedere il cadavere del figlio.
Capita solo nelle procedure burocratiche…..dare spiegazioni che non spiegano nulla.
Poi come in alcune situazioni della vita arriva il paradosso.
A distanza di poche ore arriva l’annuncio….c’è stato un errore !!!!!
Il figlio ora è vivo!
La famiglia è sgomenta.
Il padre senza controllo si scaglia contro i militari che gli hanno comunicato la notizia.
Intervengono la moglie e gli amici a scongiurare il peggio.
E fin qui la trama.
Poi Samuel Maoz incomincia a dipingere un irresistibile affresco surreale utilizzando tecniche sonore e d’animazione.
Insomma tutto quello che un regista visionario può utilizzare in una pellicola per raccontare la sua visione dei fatti.
In un checkpoint militare israeliano dove dei ragazzi, compreso il figlio dichiarato deceduto, devono affrontare le tediose quanto inutili giornate da trascorrere presso questa ipotetica frontiera dell’assurdo, non succede mai nulla.
Non precisamente però.
In realtà compare ogni tanto un cammello, che impassibile passa davanti alla loro stanga tutti i giorni.
Peccato altrimenti avrei paragonato la scena alle ambientazioni del Deserto dei Tartari dal romanzo di D.Buzzati.
Un container che li contiene cede sempre di più nel terreno e una lattina di birra ne indica irrimediabilmente la discesa confermando anche in questo modo il nonsense delle giornate che trascorrono tutte uguali.
Scena indimenticabile del film è quella con l’esilarante danza del ballo che da’ il titolo al film che simboleggia il ritorno su sè stessi degli avvenimenti della vita.
Maoz utilizza i canoni del surreale e del grottesco in modo funzionale e mai fine a se’ stesso.
Credibili i protagonisti nella loro interpretazione tranne aihme’ quella della moglie che definirei lineare senza quindi connotazioni particolari.
Lunga vita a Maoz.
Recensione a cura di Rossana Di Stefano