Il cinema è un’arte: questo è un dato di fatto. Alcuni registi, tuttavia, riescono a porsi oltre il semplice e sottile significato di “arte”, realizzando opere che trascendono il tempo e lo spazio, film universali ai quali le etichette di “arte” e di “cinema” vanno strette. Non sono molte le opere così potenti, in tutta la storia della settima arte, ed una di queste è quello che viene comunemente considerato come il massimo capolavoro di uno dei più importanti registi di sempre: Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari), di Yasujiro Ozu. Un film fondamentalmente “anti-cinematografico”, un’opera che rifiuta qualsiasi forma di spettacolarità per elevarsi al di sopra del mezzo-cinema ma che riesce a sfruttarlo alla perfezione, così da toccare corde che un soggetto “banale” come quello del film in questione non avrebbe mai potuto toccare, se manipolato da una sensibilità diversa da quella di Ozu.
Il più cristallino e puro minimalismo formale del cinema di Ozu si riflette, dunque, anche sulla trama, che racconta, semplicemente, di due anziani (l’attore feticcio di Ozu, Ryū Chishū, e Higashiyama Chieko) di un paesino giapponese che decidono di far visita ai loro figli nella grande Tokyo. Nulla più. Una storia che si sviluppa appena al di là dei confini della Storia, quella con la “s” maiuscola, quella dei grandi eventi, della Seconda Guerra Mondiale e dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Vi sono dei rimandi ai tragici avvenimenti che hanno caratterizzato il Giappone della prima metà del ‘900 ma non sono altro che questo, semplici rimandi. Perché ad Ozu interessa la vita normale dell’uomo comune (shomingeki), non quella tormentata delle vittime della Guerra; ad Ozu interessa la tradizione del Giappone a lui contemporaneo, non quella aurea ed epica del samurai di Kurosawa
In una cornice di umile normalità veniamo trasportati all’interno di una famiglia media giapponese: i genitori ultrasessantenni rivedono, dopo molto tempo, tutti i figli tranne uno, scomparso da diverso tempo e probabilmente morto in guerra, ed incontrano per la prima volta i nipoti, che fuggono dai nonni sconosciuti. Ed attraverso l’obiettivo di Ozu, vediamo lo scontro generazionale che allontana i figli dai genitori, li rende egoisti e poco attenti verso il padre e la madre, occupati dai vari impegni di lavoro, famigliari o chissà cos’altro. L’arrivo dei due anziani si trasforma ben presto da piacevole momento di ricongiungimento in motivo di disturbo, l’unica persona che si prenderà realmente cura di loro è Noriko (Hara Setsuko), la nuora rimasta vedova, una donna bellissima dal sorriso perennemente stampato sulle labbra, di una dolcezza e gentilezza rare. Lo sviluppo industriale che stava avendo luogo in quegli anni in Giappone da un lato ha avuto degli evidenti pro ma dall’altro anche dei gravi contro: lo svuotamento delle campagne, in favore di un inurbamento forzato che “implica a sua volta la fine del tradizionale sistema familiare giapponese, lo ie, fondato sulla famiglia allargata che vive sotto uno stesso tetto” (Ozu Yasujiro – Viaggio a Tokyo, Dario Tomasi, Lindau Film, p.17). Ecco che, poste in questa ottica, le inquadrature sulle ciminiere fumanti assumono un significato ed un’aura quasi minacciosi, come se fossero loro la causa della crisi familiare di Viaggio a Tokyo. In questo nuovo Giappone industrializzato, i legami d’affetto parentale non hanno più spazio nella vita dell’uomo delle metropoli, sostituiti da urgenze, obblighi ed impegni lavorativi che gli rubano il tempo che avrebbe potuto dedicare ai genitori o ai figli. “Fanno pena, sì, ma chi ce l’ha il tempo per occuparsi di loro?”, dirà Shige la figlia maggiore dei due anziani, evidenziando ulteriormente come la mancanza di tempo sia uno dei punti cardinali di questa magnificente opera.
Le grandi città trasformano le persone, a causa dell’eccessiva ed ingombrante competizione dell’agone sociale. Quando, da piccoli paesini, ci si trasferisce in grosse metropoli, si diventa completamente diversi: “Mio figlio non era così una volta. Era ben diverso. Ma cosa vuoi farci… a Tokyo c’è troppa gente, troppa competizione. E così uno finisce per cambiare”, afferma il personaggio di Ryū Chishū. Non sempre, però, questo cambiamento corrisponde ad un miglioramento. Il caso esemplificativo perfetto di ciò è il figlio primogenito dei due anziani, laureato e medico. Le alte aspettative dei genitori, una volta giunti a Tokyo, si rivelano delle mere illusioni, poiché il figlio vive in una piccola casa in periferia, ben lontano dal centro città, che si confarebbe ad un medico di prestigio, quale lui non è. Il nucleo fondante di questo capolavoro, dunque, è la delusione, che si dirama in numerose declinazioni, quelle affrontate fino ad ora.
ALLARME SPOILER! Tutte queste sfaccettature della delusione si confermano ulteriormente, risultando ancor più devastanti e deprimenti, nel momento della morte dell’anziana donna. I figli sembrano insensibili al suo trapasso, come se nulla fosse. Il massimo esempio di squallore morale è quello di Shige, il cui primo pensiero non va alla memoria della madre ma agli abiti dell’anziana: quando la famiglia si riunisce a pranzare, lei avanza subito richieste per appropriarsi dei vestiti della donna appena morta, mettendo in evidenza il materialismo e la morte dell’affetto parentale della figlia, che vengono ulteriormente evidenziate da poche inquadrature che Ozu dedica al piccolo paesino. Inquadrature spoglie di qualche angolo della cittadina, che risulta in lutto per la morte dell’anziana più di quanto lo siano i figli di lei. Solo due, tra tutte le persone riunite nella casa dell’ormai solo uomo anziano, piangono per la morte della donna: la figlia più piccola, che ancora vive con i genitori, e la nuora Noriko.