La pellicola si fonde alla poesia in Kaili Blues, lungometraggio d’esordio del regista, nonché poeta, cinese classe 1989 Gan Bi. Questo film è il perfetto esempio della bellezza del cinema digitale, delle possibilità che l’indipendenza dalla celluloide dà ai registi con una vera e personalissima idea di cinema; è un film che vive di sensazioni, non di azioni ma di stimoli minimali. Non c’è nulla di grande nella storia narrata dal regista, che rallenta il ritmo della narrazione fino a raggiungere il centro del film, dominato da un unico piano sequenza di 41 minuti, impossibile nel cinema della celluloide.
Kaili è un piccolo villaggio decadente e povero, tutta la prima parte del film (la cui trama non discuteremo, sarebbe superfluo) è un ritratto di questo paesino, dove Gan Bi è nato e cresciuto. Vediamo strutture fatiscenti, un ambulatorio in cui la luce continua a saltare, veniamo a conoscenza dell’intento di qualcuno di vendere un ragazzo (che però è troppo grande per poter essere venduto), ecc. Insomma, si tratta di un luogo ben lontano dall’idea di “bel posto in cui vivere”. Tuttavia, la macchina da presa di Gan Bi lo osserva con tenero amore e con un’eleganza raramente vista in un’opera prima. Un mondo che sembra essere rimasto fermo a qualche decina di anni fa nel quale domina il vuoto ed il silenzio: frequenti sono i campi vuoti inseriti nel film, numerosi sono i momenti di totale quiete. Una lezione appresa dai grandi registi orientali anti-commerciali, come il tailandese Apichatpong Weerasethakul e il taiwanese Tsai Ming-liang, o da quello che, in un’intervista, lo stesso Gan Bi ha definito come una delle sue principali fonti d’ispirazione, il russo Andrej Tarkovskij.
La storia ha la stessa consistenza di un sogno, è eterea e sfuggente come una nube di fumo, non perché sia di difficile comprensione, al contrario, è molto semplice da capire e seguire. Tuttavia, tra le pieghe della trama si cela qualcosa che percepiamo ma non riusciamo a decifrare, forse a causa del tempo che viene plasmato dal regista a suo piacimento: il titolo del film viene mostrato a circa mezz’ora del film, abbiamo delle brevi ellissi temporali seguite poi da dei piani sequenza in cui il tempo e lo spazio vengono mostrati nella loro essenziale unità. O forse perché non si tratta di un film di persone ma di materia, di “cose”: spesso il personaggi del film spariscono dal campo, lasciando spazio ad oggetti ed arredamenti, che relegano l’essere umano al piccolo riquadro di uno specchietto retrovisore di un motorino o allo specchio di un parrucchiere. Se guardate un film per la storia, allora probabilmente troverete Kaili Blues poco interessante. Ma se quello che volete è un’esperienza quasi trascendentale, un viaggio senza una meta da raggiungere ma che comunque la raggiunge, allora questo è il film che fa per voi.