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Le Otto Montagne – la recensione

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C’è qualcosa di primitivo in Le Otto Montagne, qualcosa di universale, che appartiene a tutti. Non parla solamente al cuore e alla testa delle persone, parla alle loro viscere, al loro “io” più profondo. Le Otto Montagne è come un viaggio, nel senso più ampio, filosofico e concettuale del termine. Luca Marinelli ed Alessandro Borghi sono le nostre guide: ci accompagnano su per i sentieri di montagne, sulle cime, per i pascoli ed i boschi.

Ad estendere in modo didascalico il discorso si può dire che Le Otto Montagne è la storia di due ragazzini conosciutisi un’estate in montagna. Sono coetanei ma apparentemente diversi, almeno per background: Pietro viene dalla città, ha dei genitori che lo amano anche se il padre sembra troppo preso ad odiare la vita di città ed il suo lavoro piuttosto che dare attenzioni al figlio, se non quando assieme vanno a conquistare cime in montagna. Bruno è l’ultimo ragazzino rimasto di un piccolo paesino tra le Alpi Valdaostane, in estate fa il pastore ed ha un padre alcolizzato che preferisce portarlo al cantiere da adolescente piuttosto che fargli frequentare la scuola.

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Diventando grandi i due si perdono a lungo prima di ritrovarsi e scoprire che in quel lasso di tempo sono stati più in contatto di quanto credessero. Sarà un nuovo inizio di un’amicizia che avrà nella montagna l’unico sfondo possibile e i suoi tanti sentieri laterali fatti di viaggi in altre parti del mondo, amori e delusioni e la cui sintesi viene ben evocata dalla metafora del Le Otto Montagne che dà anche il titolo all’opera.


“Al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?”.


A chi ha letto il libro, si può dire che la versione in pellicola rimane fedele all’ispirazione letteraria di Cognetti (senza perderne un grammo della sua bellezza). Nel passaggio da un mezzo narrativo all’altro si riducono, per forza di cose, descrizioni, ricordi e introspezioni verbali, ma si guadagnano in immagini mozzafiato, nei corpi e nelle espressioni dei vari interpreti.

Le Otto Montagne è un film che si affida completamente agli attori: Marinelli e Borghi, che non erano insieme da Non essere cattivo di Caligari, recitano in maniere completamente diverse e lavorano senza protagonismicon un affiatamento eccezionale e commovente. Il rapporto che li unisce, e che unisce i loro personaggi Pietro e Bruno, è un rapporto di amicizia fraterno, sono come due facce della stessa medaglia. L’uomo che scrive e che decide di abbandonare la sicurezza di una casa andando fino in Nepal per “evolversi” e l’uomo che non vuole lasciare la montagna, immobile e piantato nel terreno come un albero.

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Il resto ce lo mettono, e benissimo, i due registi Van Groeningen e Vandermeersch (Alabama Monroe, Beautiful Boy) che dimostrano una grande capacità visiva e d’insieme: fanno respirare il loro film e danno alle scene un peso specifico. I dialoghi non riempiono, accompagnano, come anche i silenzi permettono allo spettatore di concentrarsi su quello che gli attori fanno. Perché Le Otto Montagne è ricco di gesti ed espressioni. Salire in montagna significa ritrovarsi da soli, significa avere il tempo per riflettere su sé stessi. Questa cosa i due registi riescono a catturarla e a mostrarla. La fatica che gli attori fanno è una fatica vera, reale e palpabile.
La Montagna è tutto. È una presenza costante del film, avvolgente, prima ancora di vederla la avverti.

Le Otto Montagne è una storia che parla di amicizia, dei nostri sentimenti, delle nostre fragilità. Ci pone di fronte ai nostri limiti, alle nostre ossessioni. È una storia che cerca di mettere ordine nei rapporti: quella tra compagni, tra padri e figli, tra estranei. Le Otto Montagne è un racconto piccolo e personale, eppure arriva oltre, travalica i confini e supera le barriere. Diventa una storia universale, si fa enorme e regala al pubblico un’esperienza totalizzante e bellissima. Andate al cinema e godetene.

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Cresciuto a massicce dosi di cinema, fin da giovane età veniva costretto dal padre a maratone e maratone di Spaghetti-Western. Leggenda narra che la prima frase di senso compiuto che uscì dalla sua bocca fu: “Ehi, Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima……” Con il passare del tempo si è evoluto a quello che è oggi: un cinefilo onnivoro appassionato di cinema in ogni sua forma che sia d’intrattenimento, d’autore o l’indie più estremo. Conteso da “Empire”, “The Hollywood Reporter”, “Rolling Stone”, ha scelto Jamovie perché, semplicemente, il migliore tra tutti.