The Bad Batch

Sezione: Venezia 73


In un tempo distopico ai confini del Texas dove il nulla è l’unica certezza disadattati, reietti di un mondo unico cercano di sopravvivere. L’inizio è incoraggiante: territorio arido, macchine abbandonate, uomini che fanno a pezzi altri uomini. Nessuno può sfuggire a quell’esistenza: neanche la protagonista (Suki Waterhousedi) di The Bad Batch, seconda regia di Ana Lily Amirpour, privata da subito di alcuni parti del corpo, perché gli uomini senza un domani non hanno limiti, e cibarsi dei propri simili diviene naturale.

Individui spezzati, facenti parte di un lotto difettoso, come viene chiamato l’habitat di questa società dove nella baraccopoli di Comfort (nome non casuale) tutti desiderano il sogno, ma come recita qualcuno se vuoi il sogno, prima devi lasciare che il sogno entri dentro di te. Lunghi piani sequenza, sguardi che cercano una salvezza fasulla, la caccia come fonte di ossigeno di questi difettosi. Come trovare il sogno? Sarà lui a manifestarsi nel volto di un santone vestito di bianco interpretato da un Keanu Reeves che sembra tanto il Pablo Escobar di Narcos.

Il climax di The Bad Batch sta tutto nell’idea originaria costruita sapientemente grazie ad una fotografia pulita, ad una regia coerente e alle scelte musicali. Il grosso limite di Ana Lily Amirpour è pensare che questo basti a sostenere un racconto che oscilla tra il fiabesco e l’apocalittico senza mai evolversi.
Alla lunga i silenzi sono ingombranti e la presunzione della regista evidente.

Non ci si aspettava un prodotto alla Mad Max ma neanche una rappresentazione che si trasforma banalmente quasi in un melò.

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Redattore

- Il cinema per me è come un goal alla Del Piero, qualcosa che ti entra dentro all'improvviso e che ti coinvolge totalmente. È una passione divorante, un amore che non conosce fine, sempre da esplorare. Lo respiro tutto o quasi: dai film commerciali a quelli definiti banalmente autoriali, impegnati, indipendenti. Mi distinguo per una marcata inclinazione al dramma, colpa del Bruce Wayne in me da sempre. Qualche gargamella italiano un tempo disse che di cultura non si mangia, la mia missione è smentire questi sciacalli, nel frattempo mi cibo attraverso il cinema, zucchero dolce e amaro dell'esistenza -