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The French Dispatch – La Recensione

Una lettera d’amore al giornalismo

Così Wes Anderson annunciava The French Dispatch l’anno scorso, prima che la pandemia facesse slittare l’uscita del suo nuovo, ambiziosissimo ed attesissimo film fino ai giorni nostri.
Oggi che, finalmente, abbiamo il film tra noi e per noi, possiamo parlarne.
In The French Dispatch emerge soprattutto questo: la figura del giornalista come grande storyteller, menzognero, talvolta, affabulatore, geniale.
In questo, assimilabile in tutto e per tutto alla figura del regista/autore.
C’è quindi una grande identificazione, da parte di Wes, nei confronti dei narratori di storie e notizie, raccontate ogni volta come un nuovo, piccolo grande romanzo di vita vissuta o immaginata.
E, certamente, l’alter ego è, ancora una volta, rappresentato da Bill Murray. L’attore simbolo del cinema andersoniano. Il perno, il punto di riferimento del film, l’editore che fa da capo, da mentore, da accentratore per tutti questi personaggi.

In tal senso, nel modo di raccontare queste storie, si può senz’altro notare il grande amore di Anderson per Fellini.

Ma The French Dispatch, concepito assieme ai soliti Roman Coppola e Jason Schwartzman, è un film straordinariamente ricco di riferimenti – tutti da scoprire -, un’opera d’arte cinefila, un lavoro audace e, per certo versi, sperimentale, il film più complesso, disorientante e meno immediato della carriera dell’autore texano.
Un film non antinarrativo, ma pieno di molte narrazioni, piuttosto che una sola ed omogenea (seppur, magari, su diverse linee temporali) narrazione come il regista di Grand Budapest Hotel (film che viene spesso rievocato, peraltro) ci aveva abituato.
A tratti, si potrebbe addirittura definire un film spiazzante e respingente.
Ma il tutto viene magnificamente ripagato da uno stile visivo mai tanto ricco, vario ed affinato, e dalla nota malinconica finale che vale tutta la visione.
The French Dispatch è infine il racconto – come si diceva, attraverso molti racconti, indipendenti e non intrecciati tra loro, ma ugualmente uniti -, di un mondo del passato che non c’è più.
Anche i giornalisti andersoniani sono, pertanto, una delle molte specie in via di estinzione, se non già estinte, messe in scena nei suoi meravigliosi film.
Meno d’impatto, meno emozionante sul breve e invece più cerebrale, ma un nuovo punto di arrivo, una nuova vetta nel cinema di questo immenso genio.
Uno dei più grandi che abbiamo nel nostro tempo. Dobbiamo godercelo ed amarlo finché possiamo. Renderci conto della sua grandezza ed unicità.

Il cast, mai così ricco, nemmeno a dirlo è incredibile, e Anderson si conferma come, forse, il più grande direttore d’orchestra in assoluto.

Vedere un nuovo film di Wes Anderson ti riconcilia ogni volta con quel senso di familiarità e tradizione, nel ritrovare gli stessi volti, lo stesso stile visivo e di composizione dell’immagine, ma in cui si sale sempre di un gradino, si assiste all’arricchimento di una splendida tavolozza di artista con ulteriori sfumature, dettagli, elementi, caratteri.
In un senso di perfezione sempre crescente, pur mantenendo, certo, lo stile che ha creato, e a cui resta fedele; l’unico in cui concepisce, in modo perfettamente naturale, le proprie creazioni ed i propri personaggi.
Superfluo quindi parlare di manierismo.
Si tratta, piuttosto, di una infinita variazione sul proprio meraviglioso ed originale tema.

Ed è grandissimo cinema, ancora una volta, voto pieno.

Articolo a cura di Riccardo Aniki