Sono entrato al cinema ponendomi questa domanda: ce la farà stavolta Wes Anderson ad andare oltre il carino e il delizioso? La risposta è si, perché in Grand Budapest Hotel oltre alla sua inconfondibile cifra stilistica autocelebrativa e autoreferenziale mi è apparso di vedere qualcosa in più, Wes Anderson ha sconfinato, è andato oltre Wes Anderson, ha fatto il suo definitivo salto di maturità.
La costruzione del film è a scatole cinesi: uno scrittore racconta di come il suo romanzo sia nato dal racconto orale di uno dei protagonisti delle vicende, Zero Mustafa e, di come questi, abbia rilevato l’hotel diventandone il proprietario. Una storia che tratta di amicizia, amore, omicidi e di un quadro. Ma andiamo per ordine. Tutto si svolge agli inizi degli anni 30 in una fantasiosa repubblica del centro Europa sorge un raffinato hotel gestito da Monsieur Gustave concierge dell’hotel, un uomo colto raffinato, di grande classe con una passione per le donne anziane sue clienti. Proprio una di esse ( una irriconoscibile e fantastica Tilda Swinton) muore in circostanze sospette, lasciando in eredità un importante quadro a Gustave, suo amante e fedele servitore… Sarà solo l’inizio di una serie di incredibili avventure e stramberie.
Una favola irresistibile tutta azione e humour infarcita come non mai prima di sesso e morte in un crescendo di invenzioni e divertimento come solo il genio di Wes Anderson può fare.
Non esistono difetti in Grand Budapest Hotel , un film che per tutta la sua durata mantiene un ritmo incalzante, alternando alti e bassi, grottesco e surreale passando senza fatica da un genere all’altro: prima commedia poi noir poi di nuovo commedia passando per l’avventura e anche lo splatter. In questo incredibile mix si muove la variopinta girandola di personaggi, tutti funzionali alla storia, nessuno fine a se stesso, con un Ralph Fiennes che la fa da assoluto mattatore.
Forse un difetto c’è: è un film di Wes Anderson. I molti detrattori punteranno per l’ennesima volta il dito contro la sua pignoleria verso i dettagli insignificanti. Dopotutto il cinema “andersoniano” è così, o lo si ama o lo si odia con tutto se stesso. Io personalmente lo amo.