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Storia del cinema dell’Estremo Oriente: la Nūberu Bāgu

CAPITOLO 6. IL CINEMA DELLA CRISI: LA NŪBERU BĀGU.

Gli anni a cavallo tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 sono stati caratterizzati, in Europa, dalla nascita della Nouvelle Vague francese. Un nuovo modo di intendere il cinema e di realizzare film si è sviluppato grazie all’opera di giovani cineasti, nati come critici presso i Cahiers du Cinéma, come François Truffaut, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard (il più estremo ed avanguardistico) e Claude Chabrol. Nello stesso periodo, anche il Giappone vive un periodo di rinnovamento cinematografico, noto come Nūberu Bāgu, partito da giovani registi che ben presto si impongono come alcuni tra i nomi più importanti del cinema nipponico della seconda metà del ‘900. In questi giovani cineasti credono molto le case produttrici, anche quelle più importanti, che li sostengono finanziando i loro progetti. Il primo caso è quello di Ōshima Nagisa, il quale realizza, nel corso di soli due anni, ben quattro pellicole per la Shochiku: del 1959 è  La città dell’amore e della speranza (Ai to kibō no machi), del 1960 sono Racconti crudeli di gioventù (Seishun zankoku monogatari), Il cimitero del sole (Taiyō no hakaba) e Notte e nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri). Queste pellicole indicano la via del nuovo cinema giapponese e si allontanano dalle convenzioni cinematografiche che hanno sempre caratterizzato il cinema nipponico, cercando un approccio estetico avanguardistico radicalmente contrapposto con quello delle pellicole del passato.

La principale caratteristica delle opere appartenenti alla Nūberu Bāgu riguarda i contenuti, profondamente connessi con l’attualità e specchio degli stravolgimenti sociali che stanno avendo luogo in questi anni. “Per la prima volta, il contesto storico-politico viene esplicitamente introdotto nel cinema” (Marcos Pablo Centeno Martìn, Archive pictures and political context in the Japanese New Wave, p.116) e, per questo motivo, in diversi casi la finzione filmica viene fusa con materiale da cinegiornale ed immagini reali: il principale esempio è il succitato Racconti crudeli di gioventù di Ōshima, il quale inserisce immagini dei disordini che hanno avuto luogo a Seoul nel 1960 (Rivoluzione d’aprile sudcoreana) e delle dimostrazioni giovanili di Tokyo. Immagini di quest’ultimo fenomeno giovanile appaiono anche in Rokudenashi (Good for nothing) di Yoshida Yoshishige. Nonostante la presenza di riprese di eventi reali, il cinema di Ōshima e Yoshida non hanno un intento documentaristico ma si pongono “semplicemente” come critica sociale ed espressione di un malumore vissuto dalla gioventù giapponese successiva alla liberazione dagli Stati Uniti e sono un’evoluzione del fenomeno taiyozoku (“tribù del sole”), termine che indica la gioventù presente nei romanzi di Ishihara Shintarō, molti dei quali sono stati adattati per il cinema (Taiyozoku eiga). Sarà Imamura Shohei a porsi come documentarista nel 1970, con La storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista (Nippon Sengoshi – Madamu onboro no Seikatsu), film con il quale il regista ricerca una visione alternativa della storia recente del Giappone, grazie ad una narrazione rivoluzionaria, dal punto di vista di una persona appartenente alla classe sociale più bassa (Archive pictures and political context in the Japanese New Wave, p.117).

Racconti crudeli di gioventù di Ōshima Nagisa.

Diversi film della Nūberu Bāgu propongono un’estetica piuttosto shockante, quantomeno per l’epoca, come effetto della forte crisi sociale degli anni ’60. In questa sede prenderemo ad esempio l’opera di due soli registi. Il primo è Teshigahara Hiroshi, che ha realizzato alcuni tra i film più belli della storia sulla questione dell’identità, come Suna no onna (La donna di sabbia, 1962) e Tanin no kao (The face of another, 1966). Si tratta di opere ricche di simboli ed allegorie, entrambe tratte da romanzi di Kōbō Abe. L’individuo, in Suna no onna, è un semplice ingranaggio che serve solo a far funzionare la società, privo di una qualsiasi identità: il film, infatti, narra la storia di un entomologo che si reca in un villaggio, dove viene ospitato da una donna in casa sua, interrata nella sabbia. Il giorno seguente scopre di esservi intrappolato, poiché il villaggio sta lentamente sprofondando nella sabbia stessa. Così si ritrova costretto, come qualunque altro abitante, a spalare ogni notte, per evitare che l’intero villaggio scompaia sotto terra. La vita da prigioniero non si rivelerà molto diversa da quella che conduceva in precedenza, a Tokyo. Un anello di quella che, mutuando un’espressione leopardiana (ma non il suo originale significato), potremmo chiamare “social catena”, nella quale, però, ciascun anello non ha idea di che forma abbia ma sa solo che appartiene ad uno strumento più grande di lui. Questo discorso viene proseguito anche in un altro capolavoro di Teshigahara, The face of another (di cui potete leggere la recensione cliccando su questo link), un film pirandelliano nel quale la maschera diviene il simbolo della mancanza di un’identità individuale, che ricerchiamo allontanandoci, però, sempre più da essa. Ci nascondiamo dietro maschere per dare un’immagine di noi stessi socialmente accettata ed accettabile ma questa stessa maschera ci divora, rendendoci sempre più vuoti, come accade al protagonista del film (per maggiori dettagli sulla trama vi rimandiamo alla recensione): emblematica, in questo senso, la domanda che il dottore fa al protagonista, “Ti sei abituato alla maschera o è la maschera ad essersi abituata a te?”.

The face of another di Teshigahara Hiroshi.

Uno dei generi fondamentali per la storia del cinema giapponese è quello dei pinku eiga, film dalla forte componente erotica (ma non pornografici), nati proprio negli anni ’60, come risultato del sempre maggior interesse e apprezzamento del pubblico per la televisione e l’industria del piacere, che ha causato un leggero declino dell’affluenza nelle sale cinematografiche. Così, molte sale, legate per contratto a determinati studios, hanno cominciato a cercare alternative meno costose ai film delle grandi case produttrici, trovando la risposta che cercavano proprio in queste produzioni indipendenti low budget di stampo erotico, i pinku eiga. Molti registi, divenuti in seguito molto apprezzati dalla critica e dal pubblico di tutto il mondo, sono nati proprio nell’ambiente delle “eroductions” (erotic productions): tra i tanti nomi importanti, ricordiamo Adachi Masao, Yamatoya Atsushi e, qualche anno più tardi, Kurosawa Kiyoshi. Tuttavia, il nome più importante legato a quest’industria è quello di Wakamatsu Kōji, che, nell’ambito della Nūberu Bāgu si pone ben lontano da quanto visto in questa sede con i film di Ōshima Nagisa e Teshigahara Hiroshi. La primaria caratteristica che si nota da una superficiale visione dei suoi film è la dose di violenza insolita per un film di quel periodo. Il sesso e la degradazione dell’individuo sono il fil rouge della produzione wakamatsuiana, che qui riassumeremo in due sole pellicole: Embrione (Taiji ga Mitsuryō Suru Toki, qui la recensione) e l’ancor più bello, secondo chi scrive, Angeli violati (Okasareta hakui), entrambi del 1966. Per Wakamatsu l’umanità sembra essere estinta ed aver lasciato spazio a delle bestie ancor più infime di un qualsiasi animale selvaggio: stupri, omicidi e follia sono tutto ciò che è scaturito da quel vaso di Pandora che è stata la Seconda Guerra Mondiale, vaso sul fondo del quale, probabilmente, non è rimasto più nulla, nemmeno la speranza, ormai solo un sogno che si sta dissolvendo nella mente degli anziani, mentre in quella della gioventù rappresentata dai film di Wakamatsu esiste solo la tensione verso la morte, che sia autodistruttiva, come nel caso di Su su per la seconda volta vergine (Yuke Yuke Nidome no Shojo, 1969), o distruttiva, si veda Angeli violati.

Embrione di Wakamatsu Kōji.

In Embrione vediamo un uomo, proprietario di un negozio, portare a casa propria una sua dipendente dopo averle promesso una notte di passione. Tuttavia, ciò che aspetta la ragazza sarà un’esperienza ben più estrema e tremenda, poichè il datore di lavoro la torturerà, la frusterà e la umilierà in quanto donna. Si tratta di un’opera profondamente antinatalista il cui intento è quello di demolire, anche grazie ad un rigore formale che dona al film un’atmosfera asettica e claustrofobica, qualsiasi visione positiva della nascita e della vita. Sfruttando meccanismi narrativi che ricordano l’opus maximum del Marchese De Sade, Le 120 giornate di Sodoma, Embrione si erge a monumento non solo del più tetro pessimismo ma anche della critica sociale più feroce: Wakamatsu, spesso etichettato come misogino ma che, in realtà, sfrutta una maschera di misoginia per criticare e denunciare la condizione femminile nella società giapponese, mette in scena una “parabola sull’abuso di potere di chi ha autorità sulle masse” (Koji Wakamatsu: the rebellious auteur, Dickon Neech, eigagogo.free.fr, 2010) e sulla condizione di sottomissione a cui le donne sono costrette da una società fortemente maschilista come quella nipponica (argomento assai caro a diversi registi giapponesi, come Sono Sion, che lo tratta in, per esempio, Guilty of romance e nel più recente Antiporno).

Girato nel giro di una sola settimana e ispirato ad un fatto di cronaca nera avvenuto nello stesso 1966, Angeli violati si pone come opera ancora più estrema e disturbante della sua predecessora. Come Embrione, anche Angeli violati si svolge completamente in un unico spazio chiuso, con solo pochissimi istanti ambientati all’aperto, e racconta la storia di un ragazzo che entra in un dormitorio per infermiere, dove darà sfogo alla sua follia omicida, uccidendo tutte le ragazze ad eccezione di una sola, che, infine, abbraccerà il ragazzo, in posizione fetale, con fare materno. Questo film si pone come opera fondamentale all’interno della filmografia di Wakamatsu, che, nel corso dei 4 anni e 6 film precedenti, presentava una fotografia esclusivamente in bianco e nero, mentre in Angeli violati si trovano due scene a colori, che coincidono con i momenti più drammatiche e forti dell’intera pellicola. Anche in questo film assistiamo, per mezzo di un’estrema violenza sulle donne, ad una critica alla “natura oppressiva dell’autorità” (Koji Wakamatsu: sex is politics 24 times a second, Frédéric St-Hilaire, offscreen.com, 2016) ancora più feroce e cruda rispetto ad Embrione.

Angeli violati di Wakamatsu Kōji.

La Nūberu Bāgu giapponese ha aperto la strada per un nuovo modo di intendere e fare il cinema in Estremo Oriente, i cui Paesi o hanno vissuto una seconda esistenza (Cina e Corea del Sud) o fanno la loro timida comparsa sul panorama cinematografico internazionale (Taiwan) nel corso degli anni ’80 e ’90. Nomi fondamentali per il cinema asiatico moderno e contemporaneo fioriranno proprio in questo periodo, donando al mondo pellicole indimenticabili e fondamentali: da Wong Kar-wai a Tsai Ming-liang, da Hou Hsiao-hsien a Jang Sun-woo, da Tsui Hark a Zhang Yimou.