Home Rubriche Oriente La libertà femminile secondo Lars Von Lynch: Antiporno di Sion Sono (2016)

La libertà femminile secondo Lars Von Lynch: Antiporno di Sion Sono (2016)

Lo sappiamo tutti molto bene: Sion Sono non è un autore semplice da digerire, i suoi film spesso sono disturbanti ed estremamente cupi, quantomeno nel messaggio che vogliono mandare, se non nell’aspetto visivo. Sono è uno di quei registi che divide nettamente il pubblico, come fanno Lars Von Trier, David Lynch, Quentin Tarantino e pochi altri: o lo si ama o lo si odia. Rari sono i casi di indifferenza nei confronti del suo lavoro. Chi scrive appartiene alla prima categoria, adora l’opera del regista giapponese, così come ha adorato anche questo film, Antiporno, la pellicola più recente del genio di Toyokawa. Si tratta di un roman porno, un sottogenere del pinku eiga, uno dei generi più importanti per la storia del cinema giapponese che abbiamo già affrontato parlando di Embrione di Koji Wakamatsu.

La trama di Antiporno è difficilmente sintetizzabile, alla stregua dei grandi capolavori di un certo David Lynch: come riassumere in maniera esaustiva Mulholland Drive? E Strade Perdute? Ed Eraserhead? E Inland Empire? Qualsiasi tentativo di riassunto sarebbe un oltraggio a tali film, un’azione sminuente che ridurrebbe queste opere alla semplice e banale dimensione narrativa, ignorando la loro vera essenza. Antiporno si muove sulla stessa lunghezza d’onda del Maestro nato a  Missoula, realizzando un film la cui storia si piega su sé stessa, tornando più volte agli stessi istanti, sempre leggermente diversi di volta in volta. È il panta rei disorganizzato e surreale dei sogni, è il nastro di Möbius sul quale gli incubi scorrono veloci ed indecifrabili, con paradossi narrativi che non appartengono alla realtà ma che, in un certo senso, ritraggono quella stessa realtà che Sion Sono ha deciso di criticare. Lo so, dovrei fare del mio meglio per dire qualcosa a proposito della trama, nonostante tutto, tuttavia glisserò deliberatamente su quest’argomento, perché Antiporno è un film che va visto sapendo il meno possibile a proposito di ciò che accade nel corso dei suoi quasi 80 minuti.

Uno spettacolo per gli occhi: i colori elettrici di Antiporno.

Il rapporto tra il genere femminile ed il sesso è, come già in Guilty of romance, il tema principale della pellicola. E, come accadeva in quello stesso film, anche in Antiporno il sesso è lo strumento attraverso il quale la donna può essere libera in una società così tremendamente maschilista come quella giapponese. L’insistito accento sull’essere una “puttana” è la chiave di volta dell’intera pellicola, il libertinaggio deve essere la strada che le donne giapponesi devono seguire per poter rivendicare la propria libertà, quella stessa libertà che esse credono di avere ma che, in realtà, è solo un’illusione, una menzogna raccontata loro dagli uomini-padroni. Dunque, risulta evidente che la sessualità messa in scena dal regista non è assolutamente dedicata alla soddisfazione della libido maschile ma è totalmente declinata al femminile: l’uomo, nel film, o è uno stupratore o è un voyeur, mentre sono le donne a condurre i giochi, sono le donne a divertirsi e a godere. E attenzione, il regista non ha affatto realizzato un pinku eiga finalizzato alla stimolazione sessuale dello spettatore, il titolo è un lampante avviso, come a dire “se pensate di vedere un film eccitante, sappiate che questo è un ANTIporno”.

Altro argomento assai caro al nostro Sono è quello della famiglia (qualcuno ha detto Strange circus?). Il nucleo familiare diventa uno spettacolo aberrante, in cui non v’è amore tra genitori e figli. Anzi, sembra un organismo vivente nelle cui vene non scorre sangue ma veleno misto a viagra. Molto simile a quanto visto nel succitato Strange circus ma decisamente meno estremo e disturbante, Antiporno ritrae i genitori come pezzi di ghiaccio la cui unica funzione è quella di copulare. La famiglia è in disfacimento, dunque, come un castello di carte costruito ai piedi di un uragano. Ma non avevamo già parlato di un film che affrontava con la stessa cupezza quest’argomento? Ebbene sì, Antiporno è figlio, in questo senso, di quel capolavoro di Lars Von Trier che è Antichrist. Già a partire dal titolo, Antiporno offre diversi collegamenti al film del regista danese e, in generale, alla sua poetica. La sopraffazione che i personaggi esercitano l’un sull’altro e la sessualità distorta sono attinti direttamente dall’opera vontrieriana e, oltre a ciò, vi sono anche richiami visivi diretti ad Antichrist, come quella bellissima inquadratura della protagonista ferma immobile in un bosco, con la neve che scende lenta e leggera, ricalco della meravigliosa scena di Willem Dafoe nella quale delle ghiande cadono al rallenty su di lui.

Sono legge Von Trier: la citazione diretta ad Antichrist.

L’aspetto visivo di Antiporno è “iper-pop”, i colori elettrici e psichedelici dei muri della location principale rendono il film una delle opere cinematografiche dall’impatto visivo più particolare ed originale degli ultimi anni, che raggiunge il suo apice spettacolare nel finale, un vero tripudio di colori che macchiano la pellicola, trasformandola in un oceano di vernice, chiazze di colore che richiamano subito alla mente i quadri di Jackson Pollock: quelle chiazze che parlano di istinto, di irruenza, di violenza e di genio. I colori così accesi, “irreali” e moderni cozzano con la colonna sonora che spazia dalla musica leggera a quella classica, che include brani come la Sonata al chiaro di luna e il secondo movimento della Sonata pathétique di Ludwig Van Beethoven. In questo modo, si viene a creare un potpourri stilistico che fonde il pop ed il classico in modo elegante e meraviglioso, come solo Sion Sono poteva fare.