Home Rubriche Oriente L’incubo della nascita: Embrione di Koji Wakamatsu

L’incubo della nascita: Embrione di Koji Wakamatsu

Tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70, il Giappone visse un periodo di rinnovamento e rivoluzione cinematografiche simili a quanto avvenuto in Francia negli anni ’50 con la Nouvelle vague. Questo fenomeno, che, mutuando il nome da quello francese, viene chiamato Nouvelle vague giapponese oppure New wave giapponese, segna un momento di radicale contrapposizione con la tradizione cinematografica della Terra del Sol Levante, sia dal punto di vista tecnico-formale che da quello delle tematiche, proponendo un cinema spesso violento e disturbante che affronta tematiche quali la sessualità, gli effetti della Seconda Guerra Mondiale sull’individuo, l’alienazione umana e, in generale, offre spesso e volentieri una visione pessimista e negativa dell’esistenza. Tra i film più importanti di questo nuovo cinema ci sono The Face of Another di Hiroshi Teshigahara, capolavoro tragicamente ignorato dalla distribuzione italiana, e L’impero dei sensi di Nagisa Oshima. Oggi, però, parleremo di un altro film fondamentale della New wave giapponese, Embrione di Koji Wakamatsu, film appartenente al genere dei pinku eiga, film in cui erotismo e violenza si uniscono in un matrimonio pulp disturbante, un film che è una feroce accusa contro la vita e la nascita, il peggiore dei mali che potrebbero accadere ad una persona.

Perisca il giorno in cui nacqui! Perché non sono morto nell’utero! Perché non sono spirato appena uscito dal grembo?“. Così inizia il film, una frase tratta dal Libro di Giobbe. Un uomo, proprietario di un negozio d’abbigliamento, porta a casa una commessa per passare con lei una notte di passione. Quella che si prospettava come un’esperienza piacevole, per la ragazza si trasforma ben presto in un incubo terrificante: l’uomo, infatti, la frusterà, la legherà al letto e la torturerà crudelmente, cercando di annichilirla sia fisicamente che psicologicamente. Durante il periodo di prigionia della ragazza, l’uomo ricorderà momenti del suo matrimonio, finito perché la moglie voleva avere un figlio, contrariamente a lui, che, per questo motivo, la torturava.

La prima volta che l’uomo frusta la ragazza.

È funesto a chi nasce il dì natale”. Con questa sentenza lapidaria si conclude quello che considero il miglior componimento del più grande poeta e filosofo italiano, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi. Poche semplici parole che racchiudono tutta la disperazione e la sofferenza dell’esistenza. Una visione tragicamente pessimistica della vita e della causa della vita stessa, la nascita. La stessa visione che Wakamatsu vuole proporre in questo Embrione, incarnando così la summa del pensiero di filosofi pessimisti e antinatalisti come il succitato Leopardi, Arthur Schopenhauer ed Emil Cioran. La nascita è il momento peggiore dell’esistenza poiché trascina l’individuo in quello che l’uomo protagonista del film definisce come Inferno. Per Wakamatsu la nascita è, utilizzando le parole di Cioran, “fonte di tutte le infermità e di tutti i disastri”.

Il protagonista è visceralmente avverso alla procreazione, tanto da essersi anche sottoposto alla vasectomia e tanto da insultare e demolire psicologicamente sia la sua ex moglie che la ragazza che ha preso in ostaggio, chiamandole “cagne”. Il suo delirio antinatalista raggiunge vette di follia pura: ad esempio, afferma ed è profondamente convinto che la frusta con la quale tortura la ragazza sia uno strumento divino di espiazione, per purificare le donne impure che vogliono avere figli. Nonostante la sua fondamentale misoginia, l’uomo è affetto da un complesso di Edipo: nonostante che definisca cagna anche la madre, per aver procreato, vorrebbe possederla. Infatti, la ragazza che ha preso in ostaggio altro non è che una proiezione di sua madre. Il film ripercorre al contrario le tappe del rapporto del protagonista con sua mamma: infatti, all’inizio della loro “avventura”, lui fa sesso con lei, dopodiché inizia la terrificante tortura e, verso la fine, si sdraia sul corpo di lei piangendo, con fare quasi fanciullesco, mentre lei gli canta una ninna nanna, concludendo il ritratto edipico del personaggio. Un rapporto di amore-odio con la madre. Anzi, più che amore-odio sarebbe meglio definirlo possessione-odio e il suo desiderio di penetrare la madre potrebbe essere visto come un desiderio di ritornare nel grembo materno, un ritorno al momento prima dell’esistenza per rifuggire da quell’inferno che è la vita umana.

La “cagna”.

Wakamatsu mette in scena la pazzia del protagonista con un rigore inquietante, una fotografia in bianco e nero con la luce che taglia come una lama il buio, memore dell’insegnamento dell’Espressionismo tedesco degli anni ’20. La macchina da presa ritrae con uno sguardo asettico la follia del protagonista e il suo dominio sulla ragazza, riprendendola spesso dall’alto e schiacciandola quindi verso il basso, verso il suolo, con l’occhio di un padrone che detesta il proprio cane. Il montaggio ogni tanto è claudicante ma non intacca l’angoscia che Wakamatsu vuole far provare allo spettatore. Embrione è un film claustrofobico che soffoca lo spettatore, sia perché è ambientato tutto in un appartamento, ad eccezione dei primissimi minuti, sia a causa dell’aspect ratio che, se da una parte allarga molto l’immagine, dall’altra la chiude, e, infine, anche a causa della massiccia presenza di zone di ombra totale, completamente nere, che restringono ulteriormente la visuale. Si tratta di un incubo che darà la caccia allo spettatore con crudeltà, un turbine di disperazione e follia, un pugno nello stomaco del pubblico, cattivo e negativo come sarà poi l’opera di Lars von Trier o di Gaspar Noè, per esempio. Un film da non vedere in allegria, quando si vuole passare un’oretta e un quarto tranquilla. Embrione è un film breve, dura una settantina di minuti, ma è un colossale j’accuse alla vita e alla nascita, un enorme monumento al pessimismo e all’odio per l’esistenza.