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Antichrist – di Lars Von Tier

Antichrist

Bianco e nero.  Le note e la voce dell’aria “Lascia che io pianga”. Un amplesso sotto la doccia. Una finestra aperta ed un bambino con il suo peluche che si dirige verso essa. Fiocchi di neve cadono leggeri ed eleganti. Il bambino li imita, precipitando leggiadramente sull’asfalto candido. Il bimbo muore. Il peluche accanto a lui.

Un incipit da brividi, che farebbe star male chiunque soffra della sindrome di Stendhal, quello di Antichrist, primo capitolo della cosiddetta “trilogia della depressione” del genio perverso Lars Von Trier. Due personaggi gli bastano per condurci attraverso una valle di dolore e disagio: due personaggi senza nome, due personaggi che incarnano ogni singolo spettatore del film. Charlotte Gainsbourg (che interpreterà il personaggio principale anche dei due seguenti capitoli della trilogia: Melancholia, insieme a Kristen Dunst, e Nymphomaniac) e Willem Dafoe.

Lo stile trieriano è riconoscibile subito, la camera a mano traballante e gli zoom brevi ed improvvisi che destabilizzano ulteriormente lo spettatore. La pressione psicologica alla quale siamo sottoposti è veramente enorme poiché ogni singolo aspetto della vita preso in esame dal film viene ritratto sempre con pennellate di nerissima negatività che marchieranno a fuoco la nostra psiche. Il sesso, la famiglia, l’amore, tutto quello che normalmente verrebbe visto come qualcosa di bello e positivo, qui diventa l’antitesi di sé stesso: il sesso diventa l’apice di un processo (auto)punitivo ed (auto)distruttivo; la famiglia è profondamente sfaldata, quasi un cadavere in decomposizione; l’amore non ha spazio né nella mente razionale di lui né in quella corrotta di lei.

Antichrist

La trama è veramente ridotta all’osso: dopo la morte del bimbo, il personaggio della Gainsbourg cade in un profondo stato depressivo e suo marito, Willem Dafoe, la porta nella loro casa in montagna, immersa completamente nel verde, che assume il peculiare nome di Eden, come il giardino di Adamo ed Eva. Qui la depressione di lei si trasforma in ferocia e aggressività, molto lentamente. E quando raggiungerà il culmine della sua follia, ci farà male. Molto male. Male psicologico e male fisico.

Spesso questo film, come anche molti altri del regista, è stato accusato di misoginia ma, personalmente, non mi trovo d’accordo. Von Trier maltratta spesso le donne dei suoi film perché loro sono più forti degli uomini. Prendiamo ad esempio il personaggio di Nicole Kidman in Dogville: se fosse stato un uomo, probabilmente non sarebbe sopravvissuto ai tormenti che ha subito a causa degli abitanti della cittadina. Allo stesso modo in questo film, a parti invertite, ovvero se fosse stato Dafoe a cadere in depressione, lui non sarebbe stato così forte da reagire, seppur in modo così brutale ed estremo, ad una tragedia come la perdita di un figlio.

Articolo a cura di Federico Querin