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Oppenheimer (2023) – La Recensione

 

“Ora sono diventato Morte / Il distruttore dei mondi”.

Quali devastanti e vertiginosi dubbi possono insediarsi nella mente dell’uomo che ha creato la bomba? Quanta ambiguità morale può sedimentarsi nella psiche dell’uomo che si è sostituito a Dio. Quanta onestà intellettuale serve, anzi è servita, a Julius Robert Oppenheimer, l’inventore della prima bomba a fissione nucleare?

Queste sono solo alcune delle complesse e ossessionanti domande che si pone Christopher Nolan nel suo dodicesimo film, l’omonimo biopic Oppenheimer.

Film sontuoso, forse uno dei migliori di Nolan, molto dialogato, verboso, quasi prolisso, quasi.

Perché la pellicola non fa altro che interrogarsi, dalla fisica alla metafisica.

Eppure non c’è una parola, una scena o un personaggio di troppo.

E se l’indiscusso protagonista è lo scienziato ma soprattutto l’uomo Oppenheimer interpretato magistralmente da Cillian Murphy, intorno c’è tutto il Progetto Manhattan e non solo, quindi un ricchissimo cast: Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh, Gary Oldman e sono solo alcuni!

Tutti perfettamente a fuoco, non solo perché tutti grandi attori, ma perché tutti i ruoli sono stati scritti bene, pennellati perfettamente e in questo Nolan da una severa lezione a Wes Anderson e al suo recente Asteroid City, che col suo roboante elenco di star, si è limitato ad un patinato red carpet.

Oppenheimer invece va a fondo.

Attraverso continui flashback e flashforward la struttura narrativa del film spazia dagli anni ‘20 ai ’60, dalla perfezione dell’atomo all’orrore della bomba.

Dall’Oppenheimer studente, e le sue ossessioni per la materia, ad altre ossessioni, quelle tutte americane, anticomuniste, sociopolitiche, al maccartismo, la corsa agli armamenti, all’atomica,

Più che un’infarinatura di fisica quantistica, aiuta una minima conoscenza del contesto storico politico dell’epoca, forse per questo i 180 minuti di Oppenheimer potrebbero risultare ostici per qualcuno.

Per il resto la pellicola è perfettamente maniacale proprio come il suo regista, dialoga quasi con lo spettatore quando “questa tensione è insostenibile”, ammiccando al meta.

Non sfonda la quarta parete, ma lo percuote (lo spettatore) con dialoghi serrati e un’incalzante e straordinario lavoro di musiche e sound design.

Un film complesso eppure così lineare ed empatico da lasciarci sconcertati, perplessi per le domande che si pone il film, che sembrano rivolte anche a noi.

In fondo siamo tutti, nel nostro piccolo, degli Oppenheimer che si confrontano ogni giorno con i nostri personali dilemmi morali.

Chiudo con il monologo sull’orrore di Marlon Brando in Apocalypse Now: “Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei.. Ma non ha il diritto di chiamarmi assassino“.

In questo dramma, ci siamo tutti.