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Old (2021) – La Recensione

Guy (Gael García Bernal) e Prisca (Vicky Krieps), marito e moglie, si concedono un’ultima vacanza in un resort tropicale prima di confessare ai loro piccoli figli Trent e Maddox che i due sono in procinto di divorziare.

Il manager del lussuoso resort, convince la famiglia a visitare un piccolo paradiso locale, una spiaggia nei pressi di un’isolata riserva naturale. Qui la giovane famiglia farà conoscenza con il rapper Mid-Size Sedan (Aaron Pierre), una coppia sposata Jarin (Ken Leung) e Patricia (Nikki Amuka-Bird), il chirurgo Charles (Rufus Sewell) con la bella moglie Chrystal (Abbey Lee), la figlia Kara (Eliza Scanlen) e la nonna Agnes (Kathleen Chalfant). Ma improvvisamente, complice il ritrovamento di un cadavere, la vacanza si trasformerà in un vero e proprio incubo.

Diretto e prodotto da Shyamalan partendo dal fumetto Castello di Sabbia (Château de sable) a sua volta scritto da un altro regista, Pierre Oscar Lévy e da Frederick Peeters inizia come un classico giallo dalle atmosfere à la Agatha Christie dove il vero protagonista sembra essere la claustrofobica location, apparentemente idilliaca ma con la quale tutti i personaggi dovranno fare i conti.

Un remoto angolo di paradiso che diventa una sorta di laboratorio di sperimentazione farmaceutica, che insieme all’isolamento sociale che ne consegue, sembra quasi suggerire un riferimento all’attualità pandemica. Ma c’è di più.

La pellicola è soprattutto raffinata speculazione sul tempo, inteso come l’inarrestabile scorrere dell’esistenza umana. Rimorsi, ricordi, riflessioni, di una vita intera, stretchati per amplificare o sminuire il reale valore, il concreto peso di alcuni passaggi delle nostre esistenze.

Ma in Old il regista sviscera anche riflessioni metacinematografiche, che si rendono palesi quando il personaggio di Rufus Sewell (in bolla più che mai) cita ossessivamente “quel film con Jack Nicholson e Marlon Brando”, ossia Missouri di Arthur Penn. Un omaggio non casuale, a partire dal titolo originale The Missouri Breaks, che si riferisce ad un’area desolata del Montana, scavata nel corso delle ere geologiche profonde fenditure nel suolo chiamate appunto breaks.

L’inevitabile scorrere del tempo diventa dunque un’amara constatazione di quanto ci lasciamo alle spalle che sia il lontano ricordo di un’amore del passato di nome Giuseppe, o un pezzo della storia del cinema.

L’arte che viene, l’arte che va, ma anche l’arte che osserva, come testimonianza socio culturale che si palesa nel solito geniale cameo del regista che oltre ad essere il Caronte per i malcapitati, ne immortala le azioni/reazioni stando dietro la macchina fotografica.

E’ palese, in diversi momenti, come l’elemento metaforico si prenda tutto il suo spazio/tempo, sovrastando la storia e a volte la credibilità dei personaggi e delle loro azioni, ma non sembra importare a M. Night Shyamalan, che forse concede al pubblico giusto un finale eccessivamente didascalico.

Uno “spiegone” che poco toglie a questo piccolo gioiello.