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L’Isola dei Cani – Recensione

“Il ciclo della vita dipende da un delicato equilibrio. Chi siamo noi e chi vogliamo essere?”. Atari Kobayashi

Giappone 2037. In un futuro distopico, retro futurista e dittatoriale, il sindaco Kobayashi decide di mettere in quarantena tutti i cani a causa di un’epidemia di “influenza canina” che sta infuriando nella città di Megasaki.

Per dare il buon esempio alla popolazione, Kobayashi inizia proprio dal suo Spots, fraterno amico e custode del figlioccio Atari, anni prima adottato dallo stesso sindaco. Tutti i cani, dai bastardi a quelli imborghesiti, vengono abbandonati in un’isola di rifiuti. Qui saranno costretti a rifarsi una vita, mangiando quel che capita e dimenticando per sempre lo stile di vita casalingo al quale erano abituati. Ma il piccolo Atari non si rassegna e decide di andare a recuperare il suo fedele Spots.

Wes Anderson, a quasi 10 anni da Fantastic Mr.Fox, ritorna all’animazione in stop motion, dando vita ad un’anomala avventura animalista in salsa agrodolce. Come dice Niccolò Contessa, del gruppo indie “I Cani” nella canzone “Wes Anderson”: “I cattivi non sono cattivi davvero. E i nemici non sono nemici davvero.” Ma certo le barricate ci sono e gli uomini vengono rappresentati come “animali” incapaci di pietà ma di pietismo, a differenza dei quadrupedi. La pellicola, sia per forma che per contenuti, riprende il discorso iniziato dall’autore oltre 20 anni fa, con le sue prime prove Bottle Rocket, Rushmore e The Royal Tenenbaums. Anderson ribadisce i temi a lui cari, come l’individualità all’interno della famiglia o del gruppo e in questo caso del branco. Commuove e fa ridere come poche altre volte, senza rinunciare però alla sua distintiva messa in scena formale e geometrica. Era inevitabile poi, che il regista finisse per abbracciare l’iconografia pittorica giapponese, capace, se possibile, di esaltare ancor di più, le sue manie compulsive estetiche. E’ forse per questa ragione che l’animazione in stop motion, diventa una logica formale, esasperata e riuscita, per la sua idea di cinema. La staticità dei personaggi e il perfetto controllo delle inquadrature sono per Anderson come i treni o i fumetti per Sheldon Cooper.

L’isola dei cani traghetta lo spettatore nell’immaginario andersoniano, similmente alle sue precedenti prove. Un universo, anzi no, mi correggo, una darsena, del tutto artificiosa, dove però vivono personaggi veri ed emozionali. Un “non luogo” dove Wall-E incontra Mad Max.

Anderson poi, con l’espediente di vezzi autoreferenziali stabilisce i limiti del suo immaginario e definisce le strutture coesive della sua filmografia. Ma “L’isola dei cani” non è solamente autocitazionismo snob, ma anche sofisticate allusioni tanto al cinema di Akira Kurosawa, quanto al più hype movie tarantiniano, quel Kill Bill dal quale attinge la suddivisione in capitoli di una curiosa vendetta pulp. Il tutto, com’era stato per la rivalsa di Black Mamba, condito dalla visione occidentale e kitch che abbiamo dell’immaginario nipponico.

Forse L’isola dei cani è un “altrove” che abbiamo già visto in precedenza.

Ma poco importa.

Forse Anderson non riesce a spingere in avanti il suo cinema, ma si muove, ormai da anni, in orizzontale, strutturando la sua filmografia con lo stesso rigore delle sue inquadrature.

Ma anche questo poco importa. Alla fine i cani avranno la meglio.

Torneranno a casa a fianco dei loro padroni, fedeli come i dogmi del cinema di Wes Anderson.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo.