Parliamo oggi di altri due film di Lars Von Trier che non rientrano in nessuna trilogia ma che meritano l’attenzione di JAMovie e del pubblico. Sono opere particolari in cui il discorso metacinematografico del regista e sceneggiatore danese emerge con forza.
Le cinque variazioni – 2003
Lo dice il titolo stesso: si tratta di cinque variazioni di un film. La trama è quasi nulla: Lars Von Trier propone dunque all’amico-regista Jørgen Leth di realizzare più versioni diverse de L’essere umano perfetto, un vecchio successo di quest’ultimo. Quale la difficoltà? Regole ferree imposte da Von Trier (The 5 Obstructions è infatti il titolo originale) alle quali tutte le variazioni dovranno sottostare.
Dietro a un semplicissimo concept, si nascondono un omaggio al regista Leth e una riflessione sul linguaggio e il significato del cinema. L’idea delle regole ricorda il dogma 95, un collettivo di registi costituito a Copenaghen nel 1995 il cui scopo era di opporsi a certe derive del cinema contemporaneo: dopo il 1960 il cinema viene considerato morto e il Dogma ha lo scopo dichiarato di risuscitarlo.
Qual è il limite del cinema contemporaneo? La riflessione parte da un assunto di fondo: ormai chiunque, grazie a una tecnologia sempre più innovativa, può realizzare un film artificiale in grado di ingannare gli spettatori.
Ma per il dogma 95 cinema non significa “illusione” e l’unico modo per non cadere nella tentazione di realizzare un film ricco di pathos ma non vero è quello di attenersi a una severa disciplina. Da qui l’idea di creare i film «in uniforme», quasi fossero dei militari che si oppongono alla morte del cinema.
Per portare a termine l’idea che il collettivo si è prefissata, viene stilato un corpo di principi rigidi da seguire che, insieme, costituiscono il cosiddetto “voto di castità”. È da qui che vengono riprese alcune norme presenti ne Le cinque variazioni ma cambiandole ulteriormente.
Un esempio di regole: dogma 95 vs Le cinque variazioni.
Un esempio su tutti? La regola numero uno dice: «Le riprese devono aver luogo in esterni. Non devono essere utilizzati scenografie e set (se è necessario per la storia un particolare elemento scenografico, si deve scegliere una location in cui è già presente quell’elemento)». Nella variazione ambientata a Bombay l’unico sfondo è infatti dato da un pannello trasparente, oltre al quale si vedono i passanti indiani, a dimostrazione del fatto che la regola “niente elementi scenografici” viene sì trasgredita ma pur sempre nell’ambito di una nuova, severa, norma.
A fine film la voce fuori campo di Leth commenta e riassume il significato dell’opera: Jørgen «vuole nascondere tutta la sua paura e rassegnazione dietro una finzione personale»; per questo motivo Von Trier si è messo «a dare ordini e a imporre divieti con mano pesante».
«I miei film sono un bluff e un nascondino», ammette il regista amico di Von Trier. Ma questo è un semplice pretesto per accusare il Nostro: «Il disonesto sei stato tu, Lars. Perché hai visto solo quello che volevi vedere. […] Volevi smascherarmi … e invece hai smascherato te stesso». Come a dire che dietro a tutti i bellissimi dialoghi tra i due è Von Trier il regista a cui è riferibile ogni dichiarazione di poetica.
Il grande capo – 2006
Von Trier questa volta si sposta sul genere della commedia, ma senza perdere la propria carica dirompente e dissacratoria.
Ravn è il proprietario di una società danese ma questo i suoi impiegati non lo sanno. Il “grande capo”, infatti, mantiene la propria identità nascosta e finge di rivelare le decisioni aziendali attraverso un dipendente, che è in realtà Ravn stesso. Quando un islandese interessato a comprare l’azienda si fa vivo e pretende di conoscere il dirigente, questo ricompare all’improvviso. Di chi si tratta? È un attore bisognoso di lavoro che viene scritturato dal vero capo per continuare a mantenere segreta la propria identità.
Partendo da un inizio problematico, in cui l’attore fatica a inserirsi in un ambiente a lui ostico (in fin dei conti il capo è estraneo per i dipendenti stessi), la commedia assumerà tratti sempre più grotteschi. Andrà così crescendo l’intreccio di ironia e violenta critica nei confronti di meccanismi che non tengono conto dell’essere umano in quanto tale.
All’interno dell’ambiente lavorativo gli impiegati sono “dipendenti” nel vero senso della parola, a partire dalla segretaria che si concede subito al capo per il prestigio e il carisma che questo sembra possedere. Sembra, appunto. Nella realtà l’attore da quattro soldi che ha indossato i panni del “grande capo” è un uomo alla deriva, senza un futuro o una prospettiva purché minima di carriera.
Il discorso sul cinema e le relazioni umane.
La verità è che non c’è nulla di vero nelle relazioni che si stabiliscono tra i personaggi. Finzione e realtà si intersecano a livello contenutistico e figurativo, portandoci dentro a un mondo dove anche quello che sembra certo è frutto di una costruzione a tavolino.
L’attore che impersona un attore è un elemento metacinematografico su cui il regista non insiste in modo particolare ma basta fermarsi un attimo a pensare ed è subito evidente che l’intero film gira attorno a questa metafora pirandelliana della finzione e recita nella vita. Senza particolari tecnicismi, Von Trier dà vita a un quadro cupo che non ha nulla della commedia a cui è abituato il pubblico italiano.
Riflessione e amarezza sono gli elementi che ci lascia questo film, insieme alla sensazione di voler vedere altre opere di Lars Von Trier.