Tutto ebbe inizio a Houston il primo maggio del 1969, quando Ann, archeologa, e Leonard, agente pubblicitario, ebbero il loro secondo figlio Wesley Mortimer Wales Anderson.
Un ragazzino introverso Wes, con la dichiarata intenzione di diventare uno scrittore.
Almeno fino a quando il padre non gli mise in mano una Super 8, con la quale il giovane girò alcuni filmini muti per amici e parenti.
Nel 1987 si diplomò alla St. John’s School di Houston che successivamente divenne la location del suo secondo lungometraggio Rushmore, quindi s’iscrisse alla Texas University.
Qui conobbe tre fratelli, Owen, Luke e Andrew Wilson, autori, attori e complici del futuro cineasta.
La combriccola di amici realizzò Bottle Rocket, il primo vero cortometraggio di Anderson che venne notato dal produttore James L. Brooks (regista di Voglia di Tenerezza e Qualcosa è cambiato), che li aiutò a presentare il corto al Sundance Film Festival. Successivamente il giovanissimo regista ottenne il finanziamento per tramutare il corto in un vero e proprio film, distribuito in Italia con il titolo di Un colpo da dilettanti.
Neanche due anni dopo Wes tornò a liceo per girare Rushmore e nel 2001 I Tenenbaum (The Royal Tenenbaums).
Fu un successo planetario e Wes Anderson divenne in breve uno degli autori indie più apprezzati ed emulati al mondo.
Si potrebbe tranquillamente dire che Anderson è considerato ad oggi, uno dei più influenti registi degli anni ’00, quelli al servizio della generazione Y, che conoscono Netflix, ma ignorano l’esistenza del VHS.
Eppure in qualche maniera Anderson è un autore profondamente melanconico nel modo in cui usa le scenografie e gli oggetti di scena per definire non solo uno spazio fisico nostalgicamente retro’, ma anche per identificare la cifra psicologica dei suoi personaggi. Il tutto con una cura ossessiva compulsiva (al limite della Sindrome di Asperger) per la composizione simmetrica delle inquadrature, con chiari rimandi al cinema di Kaurismaki e a sua volta ai maestri europei Bresson e Antonioni.
Staticità si, ma solo apparente.
Dipinti più che fotogrammi, spesso alternati ad inquadrature dall’alto su mani che fanno cose, close up su ricercatissima oggettistica e, quando necessario, piani sequenza che mozzano i tramezzi degli appartamenti, volutamente posticci.
Come a dire è tutta una messa in scena.
I suoi colori sono poi accesi e contrastati al limite del possibile, anche se, nel corso degli anni, i suoi gialli oro hanno iniziato a virare verso il giallo ocra.
Quasi a voler entrare nell’autunno della sua produzione cinematografica.
Poi ci sono i personaggi, quei “i cattivi non sono cattivi davvero, e i fratelli non sono nemici davvero, ma anche i buoni non sono buoni davvero” come dice Niccolò Contessa della indie band italiana I Cani nella canzone dedicata proprio al regista.
Lo spazio della psiche, simmetrie scenografiche, dettagli a colori, quelle meravigliose musiche d’antan e tanto altro rendono il timido ragazzo di Houston.
Un autore riconoscibile al primo colpo, a volte basta anche solo un fotogramma per dire questo è un film di Wes Anderson.
E in qualche maniera questa cosa ricorda un po’ quello che era successo negli anni ’90 con Tim Burton.
Solo un’ultima curiosità.
Un dettaglio (appunto), ma che la dice lunga sulla sua idea di cinema.
Ricordate Margot Tenenbaum e le sue inseparabili sigarette?
Beh per capire quanto il regista sia ossessionato dal particolare, Anderson scelse come marca, un particolarissimo brand irlandese.
Le Sweet Afton, celebri negli anni 70 e che all’epoca del film erano praticamente introvabili, tanto che la società chiuse i battenti pochi anni dopo.
Il nome di quel brand nasce da una poesia del 1791 dello scrittore scozzese Robert Burns e recita così:
Flow gently, sweet Afton, amang thy green braes
Flow gently, I’ll sing thee a song in thy praise
My Mary’s asleep by they murmuring stream
Flow gently, sweet Afton, disturb not her dream.