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Diabolik – La recensione

Correva l’anno 1962 quando le sorelle Angela e Luciana Giussani decisero di dare vita ad un fumetto ispirato ai romanzi d’appendice francesi, con trame a tinte noir per allietare i viaggi dei pendolari milanesi e realizzandolo in un formato tascabile per agevolarne il trasporto. È così che  nasce Diabolik, con un  primo numero dal titolo inequivocabile: Il Re del Terrore.

Una definizione che diventerà un sinonimo del criminale nonché una dichiarazione di intenti, con lo stile del personaggio delineato sin da subito poiché il Diabolik della prima ora è un personaggio fortemente negativo – in controtendenza con gli eroi dell’epoca del fumetto italiano, dedito al furto e agli omicidi insieme ad una compagna furba e spietata quanto lui ed in lotta con la sua grande nemesi, l’ispettore Ginko.
Dire che la creatura delle Giussani fu un grande successo è un eufemismo, in quanto Diabolik si attesta ormai tra le colonne portanti del panorama fumettistico italiano, avvicendando autori di livello e inanellando parodie ed imitazioni nel corso degli anni (Cattivik e Paperinik, per citarne due). Nel 2022 Diabolik compirà sessant’anni portati benissimo grazie anche al grande lavoro di Mario Gomboli, storico sceneggiatore e ora direttore della casa editrice Astorina – fondata dalle sorelle Giussani – che negli anni ha saputo mantenere coerente l’identità del Re del Terrore, smorzandone i lati più spigolosi e sperimentando numerose contaminazioni con altri media, dall’animazione alla radio.
Poteva il cinema rimanere indenne al fascino di Diabolik? Ovviamente no, ma la trasposizione pop e psichedelica di Mario Bava del 1968 non riscuote molto successo. Anzi, si può definire un vero e proprio flop.

Danger: Diabolik, di Mario Bava

Questo preambolo è necessario per cercare di dare un’idea, sebbene sia impossibile in poche righe, del peso di Diabolik non solo nell’ambito del fumetto italiano ma proprio come elemento culturale che, dagli anni Sessanta, ha trasformato la creatura delle Giussani in un’icona pop che non invecchia e anzi si rinnova, al passo con i tempi che attraversa.

È probabilmente la grande responsabilità di confrontarsi con quanto appena detto il motivo per cui ci sono voluti altri cinquant’anni prima che Diabolik potesse vedere di nuovo lo schermo di una sala cinematografica, questa volta ad opera dei Manetti Bros., all’anagrafe Marco e Antonio Manetti. Dichiaratamente fan del fumetto, i Manetti dopo molta televisione e due riuscite rivisitazioni del musical nostrano (Ammore e Malavita e Song‘e Napule), coadiuvati nella sceneggiatura dal già citato Gomboli, ottengono l’ok dell’Astorina per la realizzazione della trasposizione del Re del Terrore. Trasposizione che approda solo  quest’anno nelle sale a causa della pandemia.

Luca Marinelli è Diabolik

E benché il film non sia scevro di difetti, si percepisce fin dalle prime scene come i due registi stiano, con questa pellicola, facendo una dichiarazione d’amore non solo al criminale dagli occhi di ghiaccio ma anche ai fan di lunga data.

Basato sullo storico numero 3, L’arresto di Diabolik, il film ne ricalca battute e scene, probabilmente utilizzando il fumetto stesso come un grande storyboard sul quale ritagliare ed incollare il proprio film. Gli scorci di Clerville e di Ghenf, le inquadrature, i campi lunghi e i controcampi sono presi a piene mani dal fumetto originario, pietra miliare della storia diabolika in quanto conosciamo lei, Lady Eva Kant, che diventerà la degna metà del Re del Terrore.

Un’immagine de “L’arresto di Diabolik” – © Astorina

Eva Kant, vedova del ricco Lord Anthony Kant, arriva a Clerville dopo un lungo periodo vissuto in Sudafrica, invitata dal viceministro della difesa Giorgio Caron: con lei viaggia il diamante rosa, gioiello dal valore inestimabile che, neanche a dirlo, attira l’attenzione di Diabolik. Ma non è – letteralmente – tutto oro quello che luccica e Lady Kant nasconde dei segreti che Caron, disposto a tutto pur di averla, non esiterà ad utilizzare per ricattarla.

In questa prima parte di film si consuma una grande sorpresa: in un cast già di per sé molto azzeccato brilla di luce propria un’ottima Miriam Leone che, con la sua interpretazione, rende giustizia ad un personaggio iconico come Eva Kant. Che la Leone fosse brava lo sapevamo già – leggasi 1992 e seguenti, ma qui tiene sulle spalle buona parte della pellicola pressoché da sola fino quasi a spostare il focus della trama e trasformare il film in uno stand-alone su Eva (la quale ha un interessante background che qui viene comunque solo accennato, proprio come quello di Diabolik).

Name a more iconic duo, I’ll wait.

Anche la sceneggiatura regge bene in questa parte del film, scivolando senza inciampi   mentre scopriamo anche i segreti di Diabolik – un Luca Marinelli credibile e fedele al personaggio, cupo e algido al punto giusto – del quale nessuno conosce il vero volto e che si fa chiamare Walter Dorian, manipolando abilmente l’ingenua fidanzata Elisabeth.

Le ambientazioni anni Sessanta sono ricostruite con grande cura permettendo di immergersi nelle atmosfere retrò di un film che ad un certo punto però si spacca a metà e, paradossalmente, inizia a perdere mordente proprio nel momento in cui dovrebbe brillare maggiormente, ovvero nella parte più action, quella del colpo in banca.
La narrazione continua infatti a viaggiare in maniera volutamente rallentata, mantenendo i ritmi delle tavole del fumetto. E per lo stesso presupposto la recitazione a volte può apparire forzata o macchiettistica, ma anche qui scientemente spinta in una precisa direzione.

Molto buone, infine, le prove attoriali: oltre ai già citati protagonisti, non sfigurano nemmeno il Ginko di Valerio Mastandrea (sorprendentemente azzeccato) e la Elisabeth di Serena Rossi, oltre tutto il main cast di contorno, da Alessandro Roia a Claudia Gerini.
I Manetti, quindi, superano la prova in maniera egregia con un prodotto sicuramente migliorabile ma quanto più fedele al fumetto si potesse fare, omaggiandone lo spirito e realizzando una confezione coerente allo stile della creatura di casa Astorina.