Ci sono sport che al cinema hanno contribuito ad autentici capolavori, come la boxe o il baseball e sport che hanno sempre fatto fatica ad produrre buoni film. Il tennis appartiene a questa ultima categoria, da sempre considerato dai cineasti, più come sfondo narrativo, scenografico e/o metaforico, ad esempio “L’altro uomo” di Alfred Hitchcock, “Sabrina” di Billy Wilder e ovviamente il più recente “Match Point” di Woody Allen.
Una famiglia vincente – King Richard si colloca a metà strada tra i buoni intenti di pellicole come “La battaglia dei sessi” e il buonismo stile La ricerca della felicità.
Insomma ancora una volta Will Smith ci parla del ruolo genitoriale, quella piccola parte della vita che si può chiamare felicità! (semicit.)
King Richard racconta la storia vera di Venus e Serena Williams (rispettivamente interpretate da Saniyya Sidney e Demi Singleton), non una, ma due tra le tenniste più forti di tutti i tempi. Ma soprattutto racconta la storia del padre Richard Williams, interpretato da un ottimo Will Smith, diviso tra le sue ambizione e il suo ruolo di genitore. Un uomo capace di concepire un “piano” che prevedeva 5 figlie e un sogno nel cassetto: il tennis. Uno sport che per la comunità afroamericana di Compton era a dir poco una mosca bianca, privilegio wasp con la puzza sotto il naso. Un po’ come se da noi un produttore di ‘nduja a Catanzaro imponesse il golf a sua figlia (non è razzismo visto che chi scrive è nato a Catanzaro vero?).
Non mancano scene e momenti emozionati, l’epica dello sport e ottime interpretazioni, soprattutto nei duetti/duelli tra Will Smith e Aunjanue Ellis (attrice veramente sottovalutata) nel ruolo della risoluta madre delle due celebri tenniste.
Una pellicola da Oscar nella misura in cui gli Oscar dovessero fare un passo indietro dopo le due “covid edition” in cui hanno trionfato pellicole come Parasite e Nomadland.
Quello di King Richard è un cinema ben più addomesticato, disneyano diretto con pavida visione d’insieme dal regista Reinaldo Marcus Green e scritto senza grandi scossoni e con un’overdose di buonismo da Zach Baylin (lo scarso sviluppo dei personaggi minori e la totale assenza di un antagonista, pesano nella riuscita della pellicola).