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I, Tonya – La recensione

Il 6 gennaio 1994 la pattinatrice Nancy Kerrigan viene inspiegabilmente aggredita durante una sessione d’allenamento, in vista dei Campionati Nazionali e degli attesissimi Giochi olimpici di Lillehammer.
A causa dell’infortunio, la Kerrigan è costretta a ritirarsi e il titolo va alla sua collega ed eterna rivale Tonya Harding.

A seguito delle indagini dell’FBI però, viene fuori che a compiere quel malsano gesto, nei confronti della giovane atleta, sono stati alcuni loschi figuri collegati a Jeff Gillooly, marito e manager della Harding.

C’è un cartello all’inizio del film.
Tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly.
Di ironia e no sense la pellicola di Gillespie abbonda, tanto quanto la vita della pattinatrice più famosa d’America.

La Pattinatrice Tonya Harding

Si, perché il film è uno vero e proprio biopic che ripercorre la storia di questa atleta dai 4 ai 44 anni.
Dai primi salti sul ghiaccio, al coinvolgimento in questo assurdo misfatto, che le causò l’interruzione della carriera.
Siamo a Portland all’inizio degli anni ’90 e Tonya Harding è una promessa del pattinaggio artistico.
Tanto che diventa la seconda donna, dopo la giapponese Midori Itō, ad eseguire un triplo axel, in una competizione ufficiale.

Ma la Harding è molto lontana dall’eleganza e dalla raffinatezza delle sue colleghe.
Forse a causa della sua estrazione sociale e di una figura materna alquanto discutibile o forse semplicemente perché i vestiti se li cuce da sola e si esibisce sulle canzoni degli ZZTop.
Anche gli uomini che circondano la Harding non le danno una mano.
Soprattutto suo marito Jeff che per frenare l’ascesa della promettente Nancy, organizza appunto quell’insensata aggressione per la quale la Harding verrà ricordata negli anni a venire.

La bravissima Allison Janney

La pellicola di Craig Gillespie, regista che aveva esordito più di dieci anni fa con Lars e una ragazza tutta sua, inizia con i toni leggeri e surreali di una commedia indipendente sull’eccentrica provincia americana e su  un gruppo di malcapitati redneck del nord est, campagnoli dell’Oregon, per decollare poi in un’agghiacciante e misurata black dramedy, il cui obiettivo è la spietata analisi psicologica dei personaggi di Tonya e della madre, interpretate, in maniera a dir poco straordinaria da Margot Robbie e da Allison Janney (che, per questa parte, ha vinto l’Oscar come miglior attrice non protagonista).

Gillespie riavvolge la storia dall’inizio alla fine, grazie al semplice e funzionale espediente narrativo del mockumentary, rigirando le interviste ai personaggi reali, creando così l’amalgama e le strutture coesive necessarie per un film inaspettatamente appassionante anche per lo spettatore meno interessato ai Toe-loop, ai Salchow,  ai Flip e a tutte le altre figure complesse del pattinaggio sul ghiaccio.

La Robbie nel film

E’ proprio qui sta il merito principale del film.
Ossia quello di riuscire a far entrare in empatia lo spettatore con l’antagonista/protagonista negativa della storia, capovolgendo la più classica tendenza All american, moralista e ipocrita del buono e vincente a tutti i costi, tipico del panorama mainstream da tappeto rosso.

In questo multiverso umano dove i valori morali e l’etica sportiva vanno a farsi friggere.
Tonya Harding/Margot Robbie ne esce fuori come una sorta di Harley Quinn di Suicide Squad.

Noi siamo cattivi, siamo fatti così!

Insomma I, Tonya è un film che piacerà a tutti.
Perché è una storia politicamente scorretta, fatta di parolacce, di bulli e di stronze, con le quali il pubblico s’identifica più facilmente.
Forse perché la vita li ha presi a calci.
O forse perché Tonya, parafrasando una nota canzone dei Pooh per la smania di successo, in un mondo falso è una donna vera.

 

Articolo a cura di Giuseppe Silipo