L’input era decisamente interessante: mostrarci l’uomo fuori dalla giungla, il Tarzan civilizzato.
L’enorme limite di The Legend of Tarzan sta nel non mostrarci né l’uomo né il selvaggio.
Il Tarzan interpretato da Alexander Skarsgård, nella Londra di fine 800 è conosciuto come John Clayton III, Lord Greystoke, è un uomo dimesso, imborghesito, circondato dal lusso perché di sangue blu ma incapace di vivere il quotidiano anche anni dopo il suo addio alla terra africana.
Sin dalle prime battute è una figura cupa, con la testa sempre china e che rasenta la depressione. Nemmeno l’amore di Jane (Margot Robbie) sembra smuoverlo o pacificarlo nell’animo.
Se poco affiora dalla breve presentazione dell’uomo John nella società civile ancora più apatico è il ritorno in Congo, inviato come diplomatico dopo un invito ricevuto dal sovrano del Belgio. Anche nei luoghi che più lo identificano Tarzan è impalpabile, continua a parlare poco e i suoi pensieri, il percorso di vita, il suo vero io non emergono. Al di là dello sbandierata cambio di prospettiva Jane assume l’immagine della solita donzella in pericolo seppur con una propria personalità.
Così come poco si è fatto per mitigare l’ingombrante presenza del CGI: l’ambiente selvaggio africano è palesemente artefatto, non si avvicina mai ad una parvenza di realtà. Difetto che diventa peccato nella scene action, assolutamente scollegate con uno slow-motion disturbante.
Insomma il film di David Yates (regista di molti Harry Potter e del prossimo Animali Fantastici e Dove Trovarli) perde l’occasione di donare un nuovo vestito all’amato personaggio creato da Edgar Rice Burroughs.
Come spesso accade in un film opaco come questa nuova trasposizione di Tarzan l’aspetto più riuscito è dato dal villain, il delegato belga Leon Rom, artefice del piano trappola contro Tarzan, interpretato da Christoph Waltz.
In definitiva il grande difetto di The Legend of Tarzan sta nell’arrestarsi all’idea iniziale senza preoccuparsi di costruirla affidandosi invece a tanta superficialità.