Sono diversi i registi che fanno il grande salto passando dai corti ai lungometraggi. Tra questi vi è anche David F. Sandberg, regista svedese che realizza la sua opera prima partendo proprio dall’omonimo breve corto, Lights Out, del 2013, che ha stupito il pubblico (oltre 12 milioni e mezzo di visualizzazioni in rete), gli è valso la miglior regia al Festival Who’s There Film Challenge catturando l’interesse di James Wan, presente nelle vesti di produttore.

Lo scenario? Generalmente negli horror il male serpeggia costantemente nel buio, in Lights Out appare non appena non c’è più luce, quasi come una scia, una sagoma che si manifesta elusivamente tra le zone grigie delle nostre mura.
Rebecca (Teresa Palmer) conosce bene questa sensazione; è una ragazza indipendente con un temperamento da dura, o almeno così vuol dimostrare, restia a legarsi agli altri, come il fidanzato Bret (Alexander DiPersia).
Suo padre se ne è andato quando era una bambina, e con la madre non ha legami da diverso tempo.

La chiamata d’aiuto del fratello minore Martin (Gabriel Bateman) la riavvicinerà alla madre Sophie, interpretata da Maria Bello, rievocandole un passato di domande irrisolte.
Cos’è che oggi turba anche Martin e con chi Sophie viene sorpresa a parlare di notte dal fratello?

L’entità che li minaccia è Diana, ma tutto è collegato alla storia di Sophie, il cui passato imprigiona il presente, tenendola ostaggio in un quotidiano di depressione, di coinvolgimento emotivo con Diana ben rappresentato dai toni austeri e pesanti della sua dimora.
I contesti abitativi, i colori, i look dei personaggi: ogni elemento sottolinea i loro stati d’animo e le loro identità ed il racconto assume interesse perché la narrazione non insegue l’elemento ad effetto, – premiata la scelta di non affidarsi al CGI ma a tante opzioni pratiche – il pathos e la sensazione di paura sono tangibili perché connessi al dramma di una famiglia che dovrà, forse, varcare i limiti per liberarsi di Diana.
Sebbene Lights Out non abbia un minutaggio di media durata (solo 80 min.) è un film denso che non accelera  aderendo anche troppo alla trama. Nella seconda parte tale approccio appesantisce un po’ la visione che tentenna come la luce che abbandona all’improvviso i protagonisti.

Sandberg sopperisce ad un ritmo altalenante inserendo persino delle situazioni ironiche nella battaglia contro l’imperscrutabile e tenace pericolo.
Una scenografia congeniale, dei caratteri rappresentati con intelligenza fanno dell’esordio alla regia del regista svedese un film non certo brillantissimo per qualità dei dialoghi ma ben calibrato con un finale per niente banale.

Nel corto da cui prende spunto il film è presente anche la moglie di Sandberg, l’attrice e produttrice Lotta Losten, che vediamo in un cammeo all’inizio del film.

VOTI FINALI
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Redattore

- Il cinema per me è come un goal alla Del Piero, qualcosa che ti entra dentro all'improvviso e che ti coinvolge totalmente. È una passione divorante, un amore che non conosce fine, sempre da esplorare. Lo respiro tutto o quasi: dai film commerciali a quelli definiti banalmente autoriali, impegnati, indipendenti. Mi distinguo per una marcata inclinazione al dramma, colpa del Bruce Wayne in me da sempre. Qualche gargamella italiano un tempo disse che di cultura non si mangia, la mia missione è smentire questi sciacalli, nel frattempo mi cibo attraverso il cinema, zucchero dolce e amaro dell'esistenza -