Fa male Manchester by the Sea, fa malissimo come un cazzotto sullo stomaco, preciso e ben assestato. È un dolore che non ti aspetti, che ti entra dentro e non ti lascia più, una tranvata emotiva a cui è impossibile essere preparati.
Alla sua terza opera, dopo il purtroppo quasi dimenticato Conta su di me e dopo le infinite diatribe legali con la Fox Searchlight per Margareth, Kenneth Lonergan cala l’asso da novanta e dirige un capolavoro intimista che ha razzolato premi su premi in tutto il mondo, candidato a sei premi Oscar.
La Manchester by the Sea del titolo è una cittadina del Massachusetts, che si affaccia sull’oceano a pochi chilometri da Boston. Qui vive Lee Chandler un inserviente tutto fare, massacrato dalla vita, che cerca una via di fuga nella routine riparando lavandini e sturando cessi. Non parla con nessuno, passa le sere ad ubriacarsi in solitudine al bar e fa rissa con chiunque lo fissi più del dovuto. Il suo unico contatto con il mondo è suo fratello Joe, proprietario di un peschereccio a Manchester cerca di crescere un figlio sedicenne (Patrick) i cui unici interessi sono l’hockey, le ragazze e la musica. Quando Joe muore improvvisamente di infarto, Lee è costretto a tornare nella sua cittadina natale per prendersi cura di Patrick e intanto vecchi fantasmi mai sepolti ritornano lentamente a galla.
Saranno le location che io amo, i piccoli paesini affacciati sull’oceano del Nord Est statunitense, le casette dei pescatori con i tetti spioventi, i pescherecci, i fari, i gabbiani, se metti tutto questo sono facile da conquistare e con me sfondi una porta aperta. Ma sicuramente i pregi da imputare a Manchester by the Sea non sono di certo questi, o almeno non solo.
Il rischio di film che decidono di raccontare il dolore è quello di manipolare lo spettatore, comandandone le reazioni emotive in modo patetico e schematico, con fastidiose scene madri messe lì apposta per commuovere a bacchetta. Ma non qui. Lonergan riempie il film di vita vera, Manchester by the Sea è un dramma che ti dice cose terribili e devastanti ma non te le urla in faccia: le sussurra e questo fa più male che mai. È un dramma intimista che si prende i suoi tempi, che scorre lento ed adagio perché è giusto così: con il cuore e il dolore non si scherza, ci sono dolori impossibili da elaborare e ferite impossibili da cicatrizzare in una vita tanto meno in due ore di film.
Certo il rapporto tra Lee e suo nipote Patrick nel corso del film qualche muro lo abbatte, lo riabitua al dialogo, a comunicare e relazionarsi con qualcuno, ma più scorre il tempo e più si capisce come per Lee non esista salvezza e come sia dannatamente difficile andare avanti.
Nel raccontare una storia del genere così calibrata e misurata è necessario il massimo impegno di tutti; Casey Affleck è a dir poco mostruoso nel rendere reale il dolore di Lee, una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni che lo fa entrare di diritto nell’olimpo dei giganti. È scandaloso come il talento recitativo tra i due fratelli sia finito solo a lui. Contraltare, nominata come miglior attrice non protagonista, Michelle Williams: i due sono protagonisti di una scena tanto straziante quanto indimenticabile, così devastante da lasciarvi più morti che vivi, da farvi venir voglia di scomparire da quanto faccia male.
Uno dei migliori film dell’anno, che continuerà a conquistare premi. Un dramma intimista che ti entra dentro, nelle ossa gelandoti l’anima. Così come fa la neve, che scende gelida e lenta a Manchester by the Sea.