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Kong: Skull Island – Recensione

Kong: Skull Island

I monster movies si arricchiscono di un nuovo tassello con Kong: Skull Island, b-movie fracassone che insieme a Godzilla va ad aggiungersi al MonsterVerse della Legendary Pictures aprendo la strada al cross-over atteso per il 2020.

 

Siamo nel 1973, la guerra del Vietnam sta finendo e il presidente Nixon ordina il ritiro delle truppe. Nel frattempo a Washington un’organizzazione para-governativa denominata Monarch sta cercando finanziamenti per una missione scientifica  su di una misteriosa isola a forma di teschio per “studiarne” il singolare territorio. Circondata da un moto temporalesco perpetuo che ne rende impossibile l’accesso, una squadra composta da scienziati della Monarch scortati da un gruppo di soldati di ritorno dal Vietnam (capitanati da Samuel L. Jackson che fa il Samuel L.), da un ex capitano delle SAS inglese e da una foto reporter pacifista riesce a penetrarvi. Strani mostri sono confinati lì su quell’isola, sarà l’inizio del delirio.

Non ci sono quindi le motivazione di business o le ambizioni artistiche che muovevano i King Kong originali, niente metafore sociali oppure l’epico romanticismo del remake di Peter Jackson, no signori, niente di tutto questo. A muovere le fila di Kong: Skull Island c’è una guerra mascherata da missione organizzativa, ovvero la motivazione più impersonale e banale che può esistere. Perché Kong: Skull Island è questo: un gigantesco ed impersonale b-movie ad altissimo budget, che se ne fotte totalmente della razionalità e della storia per esaltarne l’ambiente circostante, l’isola, ovvero l’assoluta protagonista della narrazione con tutti i suoi terribili mostri che la abitano.

In un’epoca dominata da film che cercano in tutti i modi di raccontare i personaggi, del perché compiono determinate azioni, in cui si cerca di dare una profondità emotiva e/o psicologica a tutti i costi, risultando molte volte anche stucchevole e fuori luogo, Jordan Vogt- Roberts ne prende le distanze. Cazzo stai guardando un film su di un gorilla gigante di 30 metri chi se ne frega della profondità! Kong: Skull Island è un b-movie, volutamente trash che sa di essere eccessivo, con una scrittura da terza media, che spara a palla la musica dei Creedence e i Black Sabbath punto.

JVG non si prende e non prende nulla sul serio: i personaggi, monodimensionali che mai avranno un’evoluzione, servono più che altro da corredo per arrivare a quello che veramente a lui interessa: Kong. Ecco Kong è preso sul serio e questo è un bene. Riscrivendone la storia, Kong non è solamente il più grosso gorilla che si sia visto al cinema, forse è anche il più umano: ci viene raccontato chi è veramente, il suo passato e cosa lo spinge a comportarsi così. Ed ecco quindi che gli umani non sono più al centro della narrazione, fungono da cornice all’equilibrio che Kong vuole mantenere nella sua terra perché lui è il re, un buon re.

Kong: Skull Island

Citando in maniera quasi sfacciata Apocalypse Now (dai temi musicali, alle scelte visive) filtrandolo con i b-movie dei mostri giapponesi, Kong: Skull Island è un filmone fracassone e divertente che intrattiene per le due ore per cui è stato concepito e che si dimentica altrettanto rapidamente. Vero b-movie ad alto budget senza tanti grilli per la testa. L’unico che dovrebbe essere possibile ad Hollywood.

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Chief editor e Co-fondatore

Cresciuto a massicce dosi di cinema, fin da giovane età veniva costretto dal padre a maratone e maratone di Spaghetti-Western. Leggenda narra che la prima frase di senso compiuto che uscì dalla sua bocca fu: “Ehi, Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima……” Con il passare del tempo si è evoluto a quello che è oggi: un cinefilo onnivoro appassionato di cinema in ogni sua forma che sia d’intrattenimento, d’autore o l’indie più estremo. Conteso da “Empire”, “The Hollywood Reporter”, “Rolling Stone”, ha scelto Jamovie perché, semplicemente, il migliore tra tutti.