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Killers of the Flower Moon (2023) – La Recensione

Quando un popolo di nativi americani scopre che sotto le loro terre scorrono fiumi di petrolio è l’inizio della loro fortuna, ma anche della loro rovina.

Improvvisamente diventano i cittadini con la ricchezza pro capite più alta del mondo. Nativi americani con autisti e cuochi bianchi che li servivano e li riverivano.

Ma è proprio in questo momento che tanta gentaglia inizia a trasferirsi in Fairfax (Oklahoma) per capire se c’è modo di appropriarsi di quelle terre. Una delle pagine più tristi della storia americana, una vergogna nazionale, che come la polvere per anni è stata dimenticata sotto zerbino.

Killers of the Flower Moon il nuovo film di un arzillo e smagliante 81 enne Martin Scorsese è l’adattamento cinematografico del romanzo Gli assassini della terra rossa scritto da David Grann.

I due protagonisti sono  Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, la nuova e la vecchia generazione di fedelissimi attori scorsesiani. Bravissimi anche Jesse Plemons, Brendan Fraser, John Lithgow, nonostante i loro ruoli un po’ marginali.

Ma chi spicca su tutti è Lily Gladstone.

Con la sia bellezza terrena, la sua eleganza d’antan rappresenta perfettamente la dignità, l’orgoglio di un popolo sterminato dall’avidità. Il silenzioso genocidio nel nome del capitalismo bianco.

Lily Gladstone avrebbe potuto recitare anche senza dire una parola, sarebbe stata comunque da Premio Oscar.

Killers of the Flower Moon è un noir, un melo, un true crime, un gangster movie, un’epopea lunga quasi tre ore e mezza, con un ritmo composto, misurato, che attinge alle atmosfere di John Steinbeck (La valle dell’Eden, Furore). Scorsere e il cosceneggiatore Eric Roth ci aggiungono un pizzico di dark humor per smussare i toni cupi e drammatici della storia.

Scelta che ben si sposa con la traccia satirica che ridicolizza la banalità del male. Nell’adattamento del libro di David Grann , Scorsese e Roth hanno più o meno eliminato la seconda metà del sottotitolo ossia la nascita dell’FBI, mossa intelligente che ha permesso agli autori di concentrarsi sul dramma dei nativi americani.

Il film si avvale della fotografia di Rodrigo Prieto, che con Scorsese aveva già fatto The Wolf of Wall Street, Silence e The Irishman, che in Killers of the Flower Moon si esalta alternando sconfinati spazi luminosi a interni sottoesposti, teatro dell’avvelenamento shakespeariano della povera Mollie.

Le musiche coinvolgenti e autentiche sono di Robbie Robertson, grande artista collaboratore di Scorsese dagli anni ’80 (Toro scatenato, Casinò, Gangs of New York, The Departed ,Shutter Island, The Wolf of Wall Street, The Irishman ).

Robertson di origine native americane, uno dei migliori chitarristi al mondo ma era anche il leader dei The Band storico gruppo rock, per i quali Scorsese girò il docu film L’ultimo valzer (The Last Waltz), nel 1978.

Quasi due decenni dopo Robertson produsse un disco cult della world music, ossia Music for the Native Americans. Per il musicista è stato un ritorno alle origini!

Scorsese dedica a lui Killers of the Flower Moon, perché purtroppo Robertson è venuto a mancare proprio quest’estate, senza aver visto il film. Una storia nella storia.

La pellicola si chiude con un folgorante cameo dello stesso Martin che si mette in prima fila nell’autodenunciare la disumanità bianca nei confronti non solo degli Osage, ma di tutte le minoranze amerinde, precolombiane. E lo fa in un sorta di podcast ante litteram, quelle trasmissioni radiofoniche anni 30 e 40 tanto popolari all’epoca, raccontante da Woody Allen in Radio Days.

Un epilogo che qui però non è “nostalgia dei bei tempi che furono”, ma un fermo j’accuse nei confronti di un’intera nazione, o forse, mai come oggi, dovremmo dire dell’intera umanità, che ha decisamente smarrito la bussola morale, nel saper distinguere vittime e carnefici.

Killers of the Flower Moon è l’ennesimo capolavoro di un regista che da più di 50 anni ci indica la via, che eleva il cinema mainstream a settima arte.