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Judas and the Black Messiah – La Recensione

“C’è un uomo chiamato capitalista. Non importa di che colore sia, nero, bianco, marrone, rosso, non importa. Perché il capitalista ha un obiettivo e questo è sfruttare le persone.

Può indossare un abito a tre pezzi o un dashiki, perché il potere politico non scorre dalla manica di un dashiki. Il potere politico scorre dalla canna di una pistola. Noi del Black Panther Party non crediamo in nessuna cultura tranne che nella cultura rivoluzionaria.”

Ci sarebbero dozzine di citazioni per raccontare Judas and the Black Messiah, nessuna come questa però definisce il momento storico, l’attidude del film, dei suoi protagonisti e soprattutto quella di Fred Hampton. Attivista nero, marxista leninista, incazzato nero, membro e vicepresidente del BPP, le Pantere Nere, il Black Panther Party (uh guarda, proprio come il film!) e della sezione di Chicago, Illinois, la città del vento. Qui il vento stava cambiando, qui è ambientato anche un altro film recente, protagonista come JATBM degli Oscar 2021 “Il processo ai Chicago 7”. Due grandi storie che s’intrecciano soprattutto quando si parla della celebre e umiliante tortura di un altro grande attivista come Bobby Seale.

Fred Hampton (Daniel Kaluuya) è il Black Messiah, che usa le parole come se fossero pallottole ed è un poeta predestinato al martirio per la causa e per il popolo. Poi c’è William O’Neal (Lakeith Stanfield) il Giuda della storia. Un uomo combattuto, da una parte le ragioni storiche, la consapevolezza politica, ma anche un arresto che lo mette davanti ad un bivio: “puoi scontare diciotto mesi per l’auto rubata e cinque anni per esserti spacciato per un ufficiale federale. Oppure puoi tornare a casa.” Gli dice Roy Mitchell (Jesse Plemons), ufficiale dell’FBI e simbolo di tutta la società piccolo borghese, capitalista e bianca fino al midollo.

Un film in cui ci sono mille sfumature di grigio, ma dove non si perde mai di vista il bianco e il nero, il cattivo dal bianco, il capitalista dal socialista, il “porco” dalla vittima vessata.

E’ un film solido e potente questo Judas and the Black Messiah, non è il cinema di neri, fatto dai bianchi per i bianchi. Qui non c’è il paternalismo e la finta redenzione (a tratti involontariamente razzista) di The Help, Green Book o A spasso con Daisy, qui si spara in faccia con e senza parole, proprio come faceva Spike Lee. Non è un caso che il regista Shaka King sia stato un suo studente.

La fotografia di Sean Bobbitt (Shame, Oldboy) è iperrealismo urbano alla Scorsese o Walter Hill. Il montaggio sapiente di Kristan Sprague, la scrittura solida ma soprattutto un regista che valorizza gli attori.

Judas and the Black Messiah è in primis un film di grandi interpreti.

Daniel Kaluuya su tutti per l’uso abbacinante della voce potente, messianica e del corpo massiccio, così lontano dalla fragilità del suo Chris di Scappa – Get Out. Quindi Lakeith Stanfield impressionante nel dar vita ai tormenti interiori di un Giuda dilaniato dai rimorsi.

C’è una nuova ondata di cinema nero, che nasce in parte dal razzismo sistemico della società americana.

Un cinema che è ormai diventato inarrestabile e che occupa un ruolo sempre più di primo piano non solo nelle piattaforme streaming ma anche tra i candidati dell’Academy Award dove JATBM è in concorso per sei statuette, film, attori, sceneggiatura, fotografia e la bellissima canzone Fight for You della cantautrice Gabriella Wilson in arte H.E.R., che dice:

“Libertà per i miei fratelli
Libertà perché ci giudicano
Libertà dagli altri
Libertà dai nostri leaders, che ci tengono in pugno
La libertà ci renderà forti
Libertà se solo lo vuoi davvero
La libertà non è affatto libera”