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Io Capitano (2023) – La recensione

Io Capitano è un po’ quello che ti aspetti senza però essere scontato, sfrutta i nervi scoperti dell’attualità senza essere buonista o retorico.

Garrone è diretto e potente nella messa in scena di un dramma che non risparmia allo spettatore l’orrore, nei confronti del quale non si era autocensurato neanche in passato, in pellicole come L’Imbalsamatore, Dogman, Primo Amore e che qui ritroviamo nelle terribili immagini delle carceri libiche, un po’ il ventre della balena di questo film. E la reference collodiana non è casuale.

Io Capitano sembra voler essere una sorta di Pinocchio moderno, il viaggio, l’ingenuità e l’inesperienza del/dei protagonisti, il gatto e la volpe che qui sono truffatori e carcerieri, il continuo riferimento alla figura genitoriale, il Geppetto della situazione che nel film di Garrone è la madre di Seydou.

E il paese dei balocchi, quell’Italia tanto sognata dai due ragazzi, che poi però è un posto dove “la gente dorme per terra”.

Io Capitano è anche un film perfetto per rappresentare l’Italia agli Oscar, per immediatezza narrativa e l’universalità del messaggio.

Il Mar Mediterraneo è il nostro muro della vergogna come ce ne sono e ce ne sono stati tanti: quello cipriota, quello di Berlino, Israele Cisgiordania, e visto che parliamo di Oscar quello di Tijuana in Messico.

Esteticamente è un film molto bello sia per le digressioni oniriche, nel realismo magico (non cito esempi per non spoilerare) e per la fotografia di Paolo Carnera già collaboratore dei fratelli D’Innocenzo, Sollima, ma da ricordare soprattutto per lo splendido lavoro fatto a metà degli anni ’90 con Pizzicata e Sangue Vivo di Edoardo Winspeare, regista che abbiamo un po’ troppo facilmente dimenticato.

L’Africa non è mai stata così vicina e in mezzo un mare di morti e le piattaforme petrolifere che i ragazzi scambiano per il bel paese (in una delle scene più significative) ma che sono in realtà metafora dello sfruttamento territoriale di un continente che continuiamo a depredare senza niente in cambio. Anzi arroccandoci sempre di più in inutili posizioni ideologiche dimenticando la componente umana.

Quella umanità che nel film di Garrone non viene mai meno ed è sempre al centro della narrazione.