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The Killing of a Sacred Deer – Recensione

The Killing of a Sacred Deer

Che quello di Yorgos Lanthimos fosse un cinema colto, lo si era intuito dalle sue disturbanti e claustrofobiche prove precedenti, in particolar modo Dogtooth e The Lobster.
Parliamo di un regista maniacale, perfezionista, sofisticato che lascia da sempre trapelare la sua sottana dalla gonna.
Un rigoroso deus ex machina che non difetta di egocentrismo autocitazionista, ma che riesce sempre a stordire di emozioni lo spettatore.

In The Killing of a Sacred Deer, sceneggiato con il suo fedelissimo Efthymis Filippou, affiorano senza pudore edonismi kubrickiani, tanto nella ricercatezza delle inquadrature, quanto nella collocazione spaziale dei suoi personaggi. Uomini e donne, spesso nuclei familiari anaffettivi e disfunzionali.

Questa nuova pellicola del regista greco, Prix du scénario a Cannes 2017, che si avvale di attori del calibro di Colin Farrell e Nicole Kidman, è un noir.

Ma ovviamente è riduttivo fermarsi qui.

Il dott. Steven Murphy è un importante e stimato chirurgo cardiotoracico. La sua vita borghese e benestante con la moglie Anna, eminente oftalmologa, e i loro due figli Kim e Bob, di 14 e 12 anni, viene improvvisamente turbata dalla recente conoscenza di Martin, un adolescente senza padre che da subito conquista la fiducia dell’uomo, al punto di introdurlo ai suoi cari. Ma il delicato equilibrio familiare (guarda Dogtooth) inizia lentamente a sgretolarsi sotto i colpi di scena che catapultano “Le charme discret de la bourgeoisie” in un efferato thriller psicologico depalmiano. Un uomo di scienza si trova di fronte alla difficile scelta tra un terribile sacrificio privo di alcun presupposto scientifico e il rischio di perdere tutto, affidandosi ai dati empirici della sua formazione medica.

Difficile? Complesso? Niente di più falso.

La trama scorre lineare, turbando lo spettatore proprio nel minato campo della realismo, solo successivamente, magico del Luis Buñuel surrealista. Una storia, tangibile e fastidiosamente vera, viene improvvisamente distorta da un elemento narrativo orrorifico e irrazionale.  Proprio il personaggio di Martin e i suoi Funny Games hanekiani. Chi è questo ragazzo? Cosa vuole? Ma soprattutto come riesce a ricattare questa quadrata e solida famiglia borghese?

Non c’è un perché. Soprattutto Lanthimos non ha alcun interesse a trovarlo. Citando uno dei punti di riferimento storici del suo cinema, Stanley Kubrick: “Un film è, o dovrebbe essere, più simile alla musica che non alla fiction. Dovrebbe essere una progressione di stati d’animo e sentimenti. Il tema, ciò che è dietro all’emozione, il significato: tutto viene dopo.”

A tal proposito l’autore greco si rivela dal primo minuto di film. Un ipnotico buio di 60 secondi sulle note dello Stabat Mater di Schubert, com’era stato similmente per la versione originaria di 2001 – Odissea nello spazio. Il regista poi sottolinea l’influenza kubrickiana anche con il ricorso alle musiche di Gyorgi Ligeti, compositore ungherese, noto al grande pubblico soprattutto grazie all’uso di alcune sue composizioni per capolavori come lo stesso 2001, ma anche Shining e Eyes Wide Shut.

Resta poi un ultimo mistero da risolvere: il titolo. Il sacrificio del cervo sacro è una raffinata citazione della tragedia greca, un riferimento esplicito all’uccisione del cervo sacro della dea Artemis (Diana) da parte di Agamennone, episodio mitologico, ripreso da Euripide nella sua famosa tragedia Ifigeneia in Aulide.

Ritorna il tema del dilemma morale che corrode.

Un beffardo psyco-dramma, non esente da venature socio politiche, ma che sembra molto più interessato a suscitare una risposta emotiva, che a puntare il dito.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo