Home recensioni biografico House of Gucci – Tra operetta kitsch e tragedia shakespeariana

House of Gucci – Tra operetta kitsch e tragedia shakespeariana

 

Per parlare di questo attesissimo film di Ridley Scott partiamo da un personaggio ai margini del film ma essenziale nella storia della maison, ed è quel genio di Tom Ford. Lo stilista e regista (A Single Man e Animali Notturni) ha detto di House of Gucci:

“L’ho trovato come la soap opera Dynasty, per sottigliezza. Ho spesso riso a crepapelle, ma non dovevo forse farlo? Nella realtà questa storia è a volte assurda, ma pur sempre tragica”.

House of Gucci è a tutti gli effetti una pecionata trash, discutibile per il modo caricaturale in cui rappresenta l’Italia e gli italiani. Un’operetta kitsch, cafona e sopra le righe che non è piaciuta molto nel bel paese. Il finale sulle note di Baby can I hold you di Tracy Chapman ma nella versione di Pavarotti & Friends, è la cosa più cringe di questa stagione cinematografica. Stridono anche alcune approssimazioni come la ricostruzione dell’omicidio di Maurizio Gucci, avvenuto a Milano ma girato nel celebre quartiere Coppedè di Roma.

Esagerazioni, luoghi comuni e approssimazioni che ci hanno fatto storcere il muso. Ma attenzione, a noi non piace neanche quando gli americani mettono la panna nella carbonara, figuriamoci quando provano a ritrarci con tutto quel po’ po’ di luoghi comuni che si sono fatti negli anni dell’italiano medio.

House of Gucci è tratto, dal libro “House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine” della giornalista Sara Gay Forden (in Italia lo pubblica Garzanti) ed è il 28mo film di Scott che ritorna in Italia 5 anni dopo Tutti i soldi del mondo.

Gli interpreti sono di altissimo livello: Adam Driver nei panni di Maurizio Gucci, Jeremy Irons in quelli di Rodolfo Gucci, Al Pacino è Aldo Gucci, Jared Leto suo figlio Paolo Gucci, Jack Huston nell’astuto ruolo di Domenico De Sole e Salma Hayek in quelli della temibile Giuseppina Auriemma. Ma soprattutto House of Gucci è Stefani Joanne Angelina Germanotta in arte Lady Gaga la cui aderenza al discusso personaggio a Patrizia Reggiani, non possiamo valutarla e probabilmente (come ha detto dialogue coach, ha un inflessione più russa che italiana) ma resta il fatto che la sua performance sia totale, maniacale, splendida inspiegabilmente esclusa dagli Oscar.

House of Gucci è proprio come la sua Patrizia, eccessivo, approssimativo, sopra le righe, ma lo è volutamente, lo è provocatoriamente.

Ridely Scott decide di scuotere, senza mezzi termini e avvalendosi anche dei luoghi comuni che tanto hanno fatto imbestialire noi italiani. Ma il ritratto che ne esce fuori, scremato dagli eccessi è una tragedia shakespeariana potente e riuscita in cui brilla la mise en scène e i costumi di Janty Yates, ma soprattutto la consapevole commistione tra sacro e profano, tra l’iconica eleganza Gucci, il suo prestigio nel settore haute couture e la sua trasfigurazione in stile Ciao 2021!.

“Nel nome del padre, del figlio e della Famiglia, Gucci.”.

Sacro e profano appunto.