Dopo i primi due apprezzati film-episodi, la trilogia Fear Street di Netflix si conclude con il capitolo finale intitolato Fear Street Parte 3: 1666.
Questa mini saga slasher iniziata con FS:1, omaggio agli anni ’90 e a Scream, e FS:2 spassosa carneficina in campeggio, stile Friday the 13th, ci porta, non privi di aspettative, alla conclusione della Fear Street Trilogy. Con questo terzo e conclusivo film gli autori svelano le carte e ci conducono molto indietro negli anni, alle origini del male. Una strega che ha un nome e un cognome: Sarah Fier.
Dopo aver rimesso a posto la mano mozzata della giovane donna giustiziata secoli prima per stregoneria, Deena (Kiana Madeira), nel corso degli eventi del 1994, ha una visione che le mostra ciò che realmente accadde nel 1666, quando la maledizione ebbe inizio. Siamo in una comunità rurale, l’insediamento originale prima che fosse diviso in Sunnyvale e Shadyside. La tenera amicizia tra Sarah Fier / Deena e Hannah/ Samantha (Olivia Scott Welch) sta per esplodere in un amore fisico e indomabile. Ma qualcuno ha visto e questa inopportuna relazione, diventa in un batter d’occhio, la causa di una serie di eventi infausti, come il pastore locale che impazzisce e la fragile economia rurale del paese che va a picco. C’è solo una cosa da fare, impiccare la piccola lasciva strega.
Se per il 1994 e il 1978 toni e stilemi erano quelli tipici dello slasher, Fear Street Parte 3: 1666, oltre a cambiare radicalmente atmosfere, sterza verso un cupo folk horror (The VVitch di Robert Eggers per intenderci) molto meno granguignolesco e spensierato.
La paura lascia il posto all’inquietudine e alla disperazione dei personaggi, impotenti innanzi all’ignoranza di una comunità bifolca che stigmatizza e condanna.
“Non temo il Diavolo, temo il mio vicino“, sussurra Sarah prima di essere giustiziata, viene fuori solo adesso la morale, il senso ultimo di questa Trilogia. Fear Street è un’aperta accusa al sistema che avalla sistematicamente da secoli, un modo di pensare bigotto e retrogrado. L’espediente narrativo di ritornare al 1994 dopo appena mezzo film, sembra suggerire l’attualità di questa ottusa mentalità provinciale, la paura del diverso e l’arroccamento falsamente moralistico della comunità, tanto quella di ieri, quanto quella di oggi, sotto gli occhi, ipocriti e la guida compiaciuta del potere che ha il volto dei Goode (Ashley Zukerman).
L’ottimo lavoro del regista Leigh Janiak (che cambia genere ma mai la destinazione) si avvale di una straordinaria fotografia (Caleb Heymann) capace di restituire bene le atmosfere dei ’90 e dei ’70, ma anche quelle cupe e desaturate del 1666.
Non era facile chiudere il cerchio di questa trilogia, non era scontato che, dopo due episodi simili per narrazione e declinazione del genere slasher, si potesse arrivare ad un finale così poco gore ma allo stesso tempo, tanto omogeneo e coerente.
La Fear Street Trilogy è stata un’esperienza molto piacevole, un emozionante viaggio nel tempo che legheremo però indissolubilmente all’estate del 2021.