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Asteroid City (2023) – Recensione

E se Wes Anderson fosse schiavo di se stesso?

Undicesimo film del regista texano, Asteroid City è ambientato a metà degli anni ’50 in una località sperduta nel deserto americano, dove si fanno test sulla bomba atomica e studi astrofisici. Ma in realtà, come in una scatola cinese, Asteroid City è un meta-racconto di un palcoscenico teatrale con un narratore che introduce la storia di un commediografo impegnato nella stesura di una pièce. A dar vita a questi personaggi che interpretano altri personaggi in cerca di autore, ci sono gli attori feticci del regista di Houston come Jason Schwartzman, Adrien Brody, Tilda Swinton, Edward Norton, Jeffrey Wright, Liev Schrieber e Rupert Friend. A lor si aggiungono Tom Hanks, Steve Carell, Scarlett Johansson, Bryan Cranston, Margot Robbie, Hope Davis e Matt Dillon.

Anderson mescola la creazione dietro le quinte di Asteroid City con il film/opera teatrale stessa, evidenziando l’artificio del cinema, riflette sul dualismo finzione/realtà, arrivando poi alla frase mantra del film: “Se non dormi, non puoi svegliarti”.

Poco altro, perché i personaggi sono appena abbozzati. E qui torniamo all’incipit: Wes Anderson è schiavo di se stesso, del suo cinema, della sua maniera, dei suoi manierismi?

Tanta forma e poca sostanza. Narcisismo tecnico che diverte lo spettatore, ma lo lascia più inaridito di prima. Non c’è spazio per le emozioni, i personaggi monodimensionali incastonati nella composizione simmetrica, il suo marchio di fabbrica, passato dall’essere il suo segno distintivo a condanna.

Asteroid City è un virtuoso e geniale esempio di packaging cinematografico, esercizio di stile, una passerella di grandi nomi, qualche bislacco elemento metaforico, un paio di situazionismi intelligenti, ovviamente reference, rimandi, citazioni, Jacques Tati, Stanley Kubrick, Kim Novak, Beep Beep dei Looney Tunes.

Cinema colto e furbo.