Si vaga sulle strade di Los Angeles fino ad essere accolti dalle luci al neon del teatro Orpheum dove si inscena Ape of god, qui Adam Driver interpreta Henry Mchenry, uno stand up comedian osannato come un profeta, un performer sociopatico e narcisista.
La sua comicità consiste nell’uccidere lo spettatore, annientarlo mentalmente, il pubblico partecipa allo spettacolo e risponde coralmente, con rimandi al teatro greco.
Marion Cotillard interpreta Ann, la cantante d’opera innamorata di Henry, che a ogni rappresentazione muore simbolicamente cercando la luce della luna: “È tutto cantato.
Penso che sarebbe stato molto frustrante registrare le canzoni in studio e fondamentalmente sincronizzare le labbra per l’intera ripresa.
Quindi è stato molto eccitante cantare dal vivo, ma è stato anche molto stressante perché cantare dal vivo implica azioni corporee che di solito non si fanno mentre si canta.
Quando canti, tutto il tuo corpo è coinvolto.
Di solito quando canti non nuoti sul dorso, non fumi una sigaretta o non ti sdrai perché altera il suono.”
Dichiara Cotillard in un’intervista, e aggiunge: “Ma è quello che voleva Leos Carax.
Voleva che trovassimo l’equilibrio tra l’emozione e il suono, il
linguaggio del corpo, l’azione del corpo.
È stata un’esperienza così intensa.
E ho imparato molto sul mio canto mentre facevo questo film.”
Il film è un’opera rock incline a folli voli soprannaturali e onirici, riflessione intima sul significato dello show, è teatro della crudeltà artaudiano di esseri umani nudi e sfiniti, è allo stesso tempo un musical e un melodramma metacinematografico.
Le camere seguono i ritmi musicali e i movimenti, Caroline Champetier, la direttrice della fotografia, controlla una di queste avvicinandosi o allontanandosi da Adam Driver sul palcoscenico, tutto è stato girato simultaneamente con due Sony Venice come camere principali, che esaltano i colori, e due Sony α7 III di supporto, gli attori cantano e interagiscono sul set come vediamo nel film per una resa vibrante di energie.
Tra scenari incantevoli e fiabeschi, Henry e Ann cantano del loro amore, immersi nel verde e poi sulle strade notturne illuminate dai fari della moto, fino alla passione sfrenata dei corpi che si intrecciano come statue michelangiolesche.
Dal teatro come per magia si passa nel bosco o nel mare in tempesta, da un linguaggio mediatico all’ altro, non c’è separazione netta tra i mondi, Leos Carax gioca sempre abilmente tra realtà e finzione.
La figlia Annette nasce nella commistione di natura e artificio, Estelle Charlier e Romuald Collinet sono le due designer di burattini che hanno realizzato nove Annette diverse, nel film vediamo l’evoluzione dalla nascita fino ai cinque anni.
Le due artiste hanno lavorato sul set ai movimenti di Annette grazie a una serie di fili e aste che avevano a disposizione, in sinergia con gli attori.
Annette è un film che vive di amore e morte, sovrapposizioni di immagini contrastanti, emozioni sensoriali forti, e sfocia nella tragedia, nello scontro fra gli egoismi e le gelosie di Henry e del direttore d’orchestra e nel vuoto disarmante di Annette che percepisce l’amore paterno e l’umanità quando ormai è tardi, l’intero universo di Carax si congela d’improvviso nella rarefazione sonora dei titoli di coda.
In definitiva, Annette è un’opera importante, entusiasmante per chi ha nostalgia di meraviglie come Night of the Hunter, che viene citato esplicitamente, o dei musical di Vincente Minnelli.