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Una giusta causa (On the Basis of Sex) – La Recensione

“È facile essere una femmina, bastano un paio di tacchi a spillo e abiti succinti… ma per essere una donna devi vestire il cervello di carattere, personalità e coraggio.”

Potremmo riassumere con questa frase di Rita Levi Montalcini, non solamente questa pellicola, ma anche la vita della sua protagonista Ruth Bader Ginsburg. Avvocato, moglie, madre e soprattutto attivista passionaria per i diritti delle donne, la Ginsburg è il cuore di questo biopic che ha inizio negli anni ’50. Decennio in cui la discriminazione in base al sesso era legale e i doveri del “sesso debole” erano quelli di “angelo del focolare”.

All’epoca la giovane studentessa di legge ebbe ad affrontare il pomposo sciovinismo maschilista imperante nelle polverose aule e biblioteche della Harvard Law School. Qui era infatti una delle nove donne in una classe di 500 uomini. All’epoca la Ginsburg aveva una piccolissima figlia ed un marito, anch’egli studente di Harvard. Poco più di dieci anni dopo, ritroviamo la famigliola a New York, alle prese con le loro carriere, Mentre Marty però è diventato un rampante avvocato di successo, Ruth si è vista sbattere le porte in faccia da tutti gli studi legali della città. La sua sola colpa? Ovviamente essere una donna!

La Ginsburg, costretta a ripiegare insegnando presso la Rutger Law School, è insoddisfatta della sua vita professionale. Ma nel suo cuore arde ancora il fuoco della legalità, della giustizia e ovviamente dell’uguaglianza tra i sessi. E’ proprio in quel momento che il marito le propone una causa legale apparentemente poco rilevante. Un caso capace però di scardinare finalmente le austere leggi americane e creare un precedente essenziale nella giurisprudenza dello Stato e dell’intera nazione.

On the Basis of Sex (come sempre assistiamo impotenti ad un’assurda traduzione e alterazione del titolo originale) è l’ultimo film della regista Mimi Leder (ve la ricordate dietro le cineprese di Deep Impact?).

La regista sforna un film più agiografico e patinato del dovuto. Una giusta causa (appunto) ma molto sacrificata da una regia piatta e ancor peggio da una sceneggiatura troppo scontata e didascalica.

Peccato, perché la pellicola affronta temi importanti e una storia che sarebbe giusto conoscere a fondo, non solamente per capire ciò che è stato, ma anche per meglio valutare ciò che sarà.

Gli anni ’60 sono stati per il femminismo americano, un importante punto di svolta per abbattere gli ingiusti pregiudizi di una millenaria e consolidata società patriarcale. Gli anni delle proteste, Berkley, il Vietnam alle porte, Betty Friedan e La mistica della femminilità, la giornalista freelance Gloria Steinem , citata più volte nel film.

Ma soprattutto sono stati gli anni in cui per la prima volta venne scalfita e poi (parzialmente) abbattuta l’idea della “Famiglia nucleare” durante le paure della Atomic Age. Un uomo che lavora e una donna che si occupa di casa e figli. Non erano ammesse eccezioni e creare precedenti poteva essere un gesto rivoluzionario e pericoloso per gli equilibri conservatori dell’America di quegli anni.

Tutto questo emerge nel film soprattutto quando si va in aula. La parte legal della pellicola della Leder infatti è l’aspetto che meglio funziona. Il resto non emerge e soprattutto penalizza la recitazione di Felicity Jones. Per non parlare della sacrificata parte interpretata, per poco più di due minuti, da Kathy Bates, nei patti della pioniera dei diritti civili Dorothy Kenyon. Quanto ad Arnie Hammer risulta, come in tutta la sua carriera di attore, dinamico stile lampione della luce, con l’unica eccezione di dieci anni or sono, quando in The Social Network, Fincher lo trasformò in due lampioni della luce.

Sarebbe giusto dunque vedere questa pellicola non tanto per un upgrade cinematografico, ma per approfondire una storia vera e un tema attuale.