E’ una bella storia quella raccontata dalla 35enne Annemarie Jacir. nella sua attesa terza prova Wajib – Invito al Matrimonio. Ma soprattutto c’è un personaggio essenziale in questa pellicola che si chiama Nazareth.
Una città nota perché indicata dai Vangeli e dagli altri scritti del Nuovo Testamento, come il luogo in cui è cresciuto Gesù. Città divisa tra cristiani e mussulmani. Ma soprattutto città occupata. Destinata infatti nel 1947 dalle Nazioni Unite a far parte dello Stato arabo palestinese, fu però occupata dagli Israeliani nel 1948. Da allora è stata quasi sempre soggetta a un governo militare. Non è una premessa scontata per comprendere a pieno il film della Jacir. L’autrice resterà nella storia del cinema, per essere stata la prima regista donna palestinese a dirigere un film. Parliamo de Il sale di questo mare, pellicola del 2008. A 10 anni di distanza la situazione non è cambiata molto. Come era successo per Soraya nel film d’esordio, giovane palestinese di 28 anni residente a Brooklyn che decide di tornare nella sua terra d’origine, anche in Wajib la trama è la stessa. La realtà sociale e politica dello Stato della Palestina, vista attraverso gli occhi occidentalizzati di un giovane.
Shadi, dopo anni vissuti a Roma come architetto, torna a casa nella città di Nazareth. Qui insieme al padre, passa la giornata ad annunciare l’imminente matrimonio della sorella Amal. Si tratta infatti di un’antica tradizione della Palestina settentrionale, quella secondo la quale i familiari di sesso maschile, più vicini alla futura sposa, devono consegnare personalmente, di porta in porta, gli inviti alle nozze.
Il pretesto narrativo della Jacir è ovviamente quello di raccontare il quotidiano dei palestinesi che oggi vivono sotto l’occupazione israeliana.
Nella pellicola viene spesso posto l’accento anche sull’accettazione passiva degli anziani, abituati ormai a questa secolare stasi sociopolitica. Dall’altra parte invece c’è l’insofferenza dei giovani, soprattutto quelli che ritornano in patria, come Shadi. Il disprezzo di quest’ultimo si manifesta con violenza verbale, quando chiama gli israeliani: “coloni sionisti di merda” o quando, con sguardo deciso minaccioso, fissa due soldati in un ristorante tipico. E infine quando si rifiuta di invitare un uomo che ritiene essere uno shabak (spia dell’intelligence israeliana). Scene e frasi forti frutto di una mentalità e soprattutto di una coscienza politica che Shadi ha maturato negli anni passati tanto a Nazareth quanto in Italia, dove è fidanzato con la figlia di un noto esponente dell’Olp.
La Jacir gira tutto con estrema semplicità rendendo omaggio alla città e agli interni delle modeste case dei palestinesi. Il film si svolge durante il corso di una giornata e questo, unicamente ai dialoghi ficcanti e asciutti, conferiscono a Wajib un forte stampo teatrale. La meravigliosa scena finale quasi defilippiana ne è una conferma.
La pellicola sorprende meno della prima opera prima della Jacir, ma è una conferma del talento di questa regista. Wajib amplifica infatti il messaggio di un’autrice che cerca, con delicatezza e riconoscenza nei confronti del suo paese d’origine, di far conoscere al mondo le storie comuni nella complessa impasse sociale e politica araba israeliana.