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Un sogno chiamato Florida – La recensione

C’era una volta, non molto tempo fa, un regno incantato, fatto di palazzi alti fino al cielo e luci scintillanti.
Le persone accorrevano da ogni angolo del globo per varcare i cancelli di quel vero e proprio parco dei divertimenti.
Un luogo magico, in cui chiunque poteva diventare e fare tutto ciò che aveva sempre desiderato.
Poi, a poco a poco, le luci si spensero e i palazzi si svuotarono.
Oggi, che fine ha fatto quel paese per sognatori chiamato America?

Questa sembra essere la domanda dietro Un sogno chiamato Florida (The Florida Project, 2017).
La storia parla di Moonie (la piccola Brooklyn Prince), una bambina che vive in un motel alla periferia di Orlando, in Florida.
Con lei, c’è sua madre Halley (l’esordiente Bria Vinaite), coi suoi capelli blu e tatuaggi da Fata Turchina trap.
La loro casa si trova accanto alla pista da cui decollano gli elicotteri che trasportano i turisti al parco di Disneyworld.
Qui, tra prefabbricati e grandi magazzini mezzi abbandonati, Moonie passa l’estate con i suoi amichetti, combinando un casino dopo l’altro.
Tutto questo sotto lo sguardo protettivo di Bobby, il responsabile tuttofare del motel, un bravissimo Willem Defoe (candidato all’Oscar come Miglior Attore non protagonista).

Il film è l’ultima opera del giovane regista Sean Baker (Tangerine, Prince of Broadway, Snowbird), nome ormai più che popolare tra pubblico e critica del cinema indipendente. Candidato più di una volta ai prestigiosi Robert Altman Award e Indipendent Spirit Award (di cui uno vinto grazie a Starlet nel 2012), nelle sue storie Baker restituisce l’immagine di un’umanità relegata ai margini del Sogno Americano.
La periferia è il luogo archetipico di questa condizione.

I prefabbricati abbandonati circondano il regno della fantasia, simboleggiato da Disneyworld: così vicino da poterlo vedere e sfiorare, ma troppo in basso nel degrado per poterlo raggiungere.
Disneyland non appare mai, si vedono solo delle tracce: i negozi di giocattoli lungo l’autostrada, i fuochi d’artificio, gli elicotteri che spiccano il volo, i cartelloni pubblicitari… Orlando è un angolo di mondo dimenticato, o meglio: che il mondo vorrebbe dimenticare. Un specie di limbo in cui nessuno vorrebbe trovarsi, nemmeno per sbaglio.
Dove i ricchi capitano ogni tanto, per il gusto di pescare nei bassifondi, prima di ritornare alla loro vita dorata.

La narrazione alterna momenti di irresistibile allegria ad attimi di squallore. Merito della fotografia, che ricorda certe atmosfere dei classici cartoni disneyani.
Rosa, violetto e azzurro in tonalità pastello suggeriscono l’idea di una dimensione fantastica, oltre la realtà.
La regia riesce a far convergere tutti questi elementi in un unico, fluido pedinamento della realtà.
Baker gioca con gli accostamenti e i rimandi per contrasto.
La macchina a mano, ad altezza di bambino, pone il pubblico dietro a Moonie e i suoi amici, come se li stesse seguendo nelle loro scorribande.
Non ci sono giudizi né pregiudizi: solo racconto, solo mostra-azione.
Tutto l’impianto visivo è giocato su rimandi a contrasto.
Il motel è il castello principesco in cui i piccoli sbandati di Orlando vivono le loro avventure, i cartelloni pubblicitari sono le montagne e le valli attraversati dai viaggiatori, le paludi i boschi fatati.
E Bobby come una contemporanea Fata Madrina.

Un sogno chiamato Florida ha il sapore, l’estetica di una fiaba contemporanea. Ma oggi è diventato difficile credere nei sogni.
Si dovrebbe tornare bambini per ritrovare quel briciolo di coraggio e credere nel lieto fine.

Articolo a cura di Margherita Montali