Home Rubriche InstaCult Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher (1993)

Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumacher (1993)

Un giorno di ordinaria follia

C’è un limite a tutto nella vita, anche alla sopportazione che un essere umano è costretto a controllare. Di conseguenza, c’è un limite anche alla pazienza dell’individuo, di colui che tenta invano di creare un proprio posto nel mondo, di ottenere una realizzazione personale e di mantenerla, assieme ai legami che il tempo sgretola e porta via.

Ed è di questo che vogliono parlare Ebbe Roe Smith e Joel Schumacher (rispettivamente la penna e la macchina da presa) in Falling Down, o, come è più comunemente conosciuto, Un giorno di ordinaria follia.

Un giorno di ordinaria follia
Michael Douglas è Bill Foster in Un giorno di ordinaria follia.

Il 1993 non potrebbe mai sembrare più attuale di così. William ‘Bill’ Foster, dopo aver trattenuto rancore, disagio, delusione e senso di frustrazione per anni, perde il senno. In auto, col sudore colante e il voltastomaco causato dal traffico, l’uomo abbandona il self-control. Annulla, così, l’efficacia della bolla di protezione che conteneva la sua repressione. Lascia la sua vettura e va in giro per la città, con lo scopo di arrivare dalla sua ex moglie e di sua figlia Adele. Bill ha dimenticato di aver divorziato mesi prima e di non poter avvicinarsi alle due a causa di un’ordinanza restrittiva.

La follia però non baderà a questo, né a tutti coloro che si metteranno in mezzo tra lui e la sua meta.

Un giorno di ordinaria follia

Sarà l’indimenticabile e sottile sarcasmo sull’esistenza? L’iconico aspetto di un Michael Douglas in stato di grazia e il suo ossessivo sguardo torvo ed infelice? Sarà la regia ispirata e aiutata da una scrittura ostinata e ben strutturata? O sarà forse l’epicità drammatica di tante sequenze assemblate (l’incontro-scontro finale tra Douglas e Duvall in particolare) a rendere Un giorno di ordinaria follia un’opera d’arte pienamente inappuntabile?

Attraverso dialoghi ben costruiti, una suspense maturante verso il finale e gag di classe- unenti ironia e disperazione- che quasi fanno pensare all’opera come una black comedy, Schumacher accresce l’appeal del suo hero-not hero. Tale hero si scontra con alcuni personaggi che condividono assieme a lui l’umiliazione, la miseria e la collera- anche se in Foster l’insania omicida non trasuda ira, bensì quasi una simpatica apatia- ma è nell’epilogo che si presenta il rendez-vous più consistente.

Un giorno di ordinaria follia

Douglas/Duvall è, difatti, un duo di uomini colti, laboriosi e falliti. Entrambi si impuntano su un fine inaspettato alla disperata ricerca di uno scopo, distrutti dalla menzogna del ‘’sogno americano’’. Come suggerisce Schumacher, così sfrontatamente ma anche con forte profondità, Foster è inconsapevole delle conseguenze delle sue azioni. Ciò lo differenzia dal- più coscienzioso- personaggio di (un notevole) Robert Duvall.

Colui che agisce con la convinzione di sembrare l’eroe ma che muta nel ruolo di villain, si lascia andare poi a una psicosi eccedente. Di conseguenza si vendica di chiunque gli capiti a tiro, senza il minimo accenno di freno nelle sue azioni. Tale evento è la liberazione-autodistruzione dell’umanità. Egli metaforizza il concetto della società come causa di malcontento e povertà, la quale spinge l’essere umano, vinto da essa e dalla vita, ad essere vinto anche da se stesso. Eppure, la figura dell’uomo-tipo designata da Smith e Schumacher, cede a tale mortificazione, tocca il fondo ma decide di inabissarsi con esso.

Foster è, dunque, l’uomo del passato, l’uomo del presente, ma, inevitabilmente, anche l’uomo del futuro. Perché egli è chiunque si alzi al mattino e cerchi, ininterrottamente, il senso della vita.