Questa storia inizia nel 1980, durante la festa di Santa Rosalia, patrona della città che sorge sotto il Monte Pellegrino. Una città complessa, bella a dir poco. In quella occasione venne stretto un patto farlocco tra i palermitani e corleonesi. Da una parte Riina e dall’altra Buscetta. Due modi di essere mafiosi agli antipodi.
Ma non è la caricatura di questi ed altri personaggi che interessa a Bellocchio. Non il personaggio, l’uomo elegante, che piaceva e a cui piacevano le donne, il “Boss dei due mondi”, che viaggiava da Palermo a Rio, che si tingeva i capelli e che parlava quattro lingue. Quello che intriga al regista è il contesto storico politico di quegli anni. La parabola del personaggio, appunto il traditore, il più celebre pentito della storia di Cosa Nostra, quello è solo un pretesto. Certo Bellocchio non riesce a nascondere una certa attrazione, potenzialmente esiziale per il suo personaggio e per il film. Una fascinazione scivolosa che si palesa soprattutto nel modo in cui l’autore tratteggia (insieme a Favino) un Buscetta iconico come fosse un Depp/Dillinger o un Pacino/Montana. L’idea stessa che esista un modo diverso di uccidere qualcuno è un po’ il pericoloso fil rouge della pellicola. Fino alla scena di chiusura, necessaria e sospesa nel tempo.
La storia segue le vicende chiave della carriera malavitosa di Buscetta. Dagli “ammazzamenti” di gioventù, all’incontro con Giovanni Falcone. Il celebre maxi processo nell’aula-bunker di Palermo nel lontano 1986. Quindi la strage di Capaci il 23 maggio 1992. Non è un caso che il film sia uscito proprio in occasione dell’anniversario di quella pagina buia della storia italiana.
L’omicidio taciuto, complesso. Da sempre spacciato come un semplice scontro tra cattivi e buoni. Una strage che sta al Traditore come l’affaire Moro sta ad un illustre pellicola del passato di Bellocchio, quel Buongiorno, notte, di cui ne ricordiamo il rigore intellettuale, il finale evocativo e l’interpretazione underacting di un immenso Roberto Herlitzka. Nella nuova pellicola del maestro ci sono tutti questi elementi. La prima metà sembra concedere qualcosa al neocinema malavitoso. Una progressione degli eventi storici necessaria alla contestualizzazione e alla creazione del personaggio. L’approccio registico sembra scimmiottare l’ondata nostrana di serie tv su politica e malavita. Ma è solo un attimo. Bellocchio riporta poi la sua storia su un terreno più consono ad un moderno docu-dramma d’auteur. Niente è lasciato al caso. Ogni scena è ponderata e perfettamente cesellata.
Ma soprattutto Il Traditore si esalta in aula giudiziaria. Il confronto tra Favino/Buscetta e Ferracane/Calò, resterà impressa come una delle più riuscite scene legal della storia del cinema nostrano. Sembra di assistere a materiale di repertorio. E invece è solo la maestria di Bellocchio. I dialoghi che s’intrecciano e un realismo a tratti ipnotico. Plauso convinto poi a Pierfrancesco Favino, interprete sublime, mai sopra le righe, intenso in ogni inquadratura e bravo a gestire tanto il brasiliano quanto il palermitano. Insieme a lui anche il già citato Fabrizio Ferracane nella parte di Pippo Calò, Fausto Russo Alesi in quella di Falcone e ovviamente Luigi Lo Cascio nel complesso ruolo di Salvatore Contorno.