Strutturato in capitoli o pietanze, dall’amuse-bouche al pirotecnico dolce, The Menu è un film spiazzante, che si presenta come una thriller à la Agatha Christie e si trasforma in un piccolo ed elegante horror, con poco sangue e molta demi-glace.
Se La grande abbuffata di Ferreri (sono passati 50 anni!) era uno scurrile baccanale di cibo, elogio all’eccesso sguaiato, ma anche severa critica alla società borghese capitalista, The Menu lavora di sottrazione.
Ma in entrambi i casi si usa la cucina come allegoria sociale. Se Marco Ferreri attingeva a piena mani dallo charme discret de la bourgeoisie buñueliana, gli autori di The Menu s’ispirano di più alle atmosfere raffinate di Parasite e similmente al capolavoro di Bong Joon-ho, trasformano una black comedy, apparentemente innocua, in un ambizioso horror da camera.
Della storia è meglio parlare il meno possibile, soprattutto se non avete visto il film. Ma vi basterà sapere che è ambientata in un isolato ristorante durante la cena di haute cuisine dall’eccentrico chef Julian Slowik (Ralph Fiennes).
The Menu lavora sul piano metaforico, come analisi/critica della società contemporanea e del suo patto faustiano col capitalismo e col consumismo.
Ma la pellicola parla anche di cucina in senso stretto, quella tristellata, molecolare, concettuale. Punzecchia (ma non denigra) l’arte culinaria, anche quando degenera in azione ossessivo-compulsiva e onanismi vari. Soprattutto sminuisce e mortifica i clienti che ne fanno un uso ostentatorio. Persone ricche e annoiate, spesso prive di nozioni o palati capaci di comprende a pieno il valore di ciò che degustano.
Ognuno dei commensali ha comunque delle colpe precise, un vizio capitale da espiare, una ragione per essere presenti a questa macabra mise en scène della gastronomia molecolare.
Non la Margot di Anya Taylor-Joy, sempre meravigliosamente a suo agio con il ruolo della vittima di repressioni patriarcali e/o puritane (The Vvitch, The Northman), della tecnologia etica (Morgan), o di quelle psicologiche (Split).
Il suo personaggio che si trova per sbaglio in questa prigione culinaria, è il personaggio di rottura del film, ma adotta una «strategia di sopravvivenza che non ha mai senso», il suo atteggiamento passivo-aggressivo confonde lo spettatore.
Tra i pochi limiti di una pellicola che brilla per la scrittura, ma anche per i comparti tecnici. La fotografia di Peter Deming (Strade perdute, Mulholland Drive) esalta le atmosfere claustrofobiche e le scenografie minimal di Gretchen Gattuso.
La regia un po’ scolastica di Mark Mylod (con un curriculum molto rom-com) cerca di rispettare lo script di Seth Reiss e Will Tracy, privando il film di un po’ di verve. Si sente il deus ex machina Adam McKay (La grande scommessa, Don’t Look Up), questa volta in veste di produttore.
Nel complesso un film raffinato, magari non sempre a fuoco, ma capace di tenere alta l’attenzione dello spettatore.
Merito delle ambizioni narrative, estetiche e alle ottime interpretazioni, della già citata Anya, del mefistofelico Ralph Fiennes, dell’ossessivo Nicholas Hoult e dell’inquietante Hong Chau (forse la migliore tra tutti).