8 Febbraio 1998, Madison Square Garden di New York; intervallo dell’ All-Star Game dove si affrontano West contro East.
“Ti avevo chiesto solamente di passarmi la palla, una fottuta e semplice richiesta, per quale motivo non lo fai mai?” chiede il numero 20 in maglia Sonics. “Non ti vedo abbastanza motivato Gary, hai uno sguardo di chi è venuto a New York per Miss Liberty, fatti trovare libero e giuro che te la passerò” risponde il ragazzo con sguardo beffardo.
Gary Payton, detto The Glove, è ormai insieme a John Stockton la più forte Point Guard dell’ NBA e sta rimproverando un giovane Laker di giocare più con la squadra e meno per se stesso.
“Michael, il ragazzo è incontrollabile, digli qualcosa tu cazzo” urla Payton; “ehi fratello non sono suo padre e poi sono io che devo marcarlo, dovessi dargli i consigli giusti potrebbe crearmi dei problemi” risponde Jordan con il sorriso che da sempre lo contraddistingue.
In realtà Michael sarà MVP plebiscitario del match e premiato da David Stern come The All Star of the All Stars.
Durante la partita del passaggio della torcia sarà lo stesso young fellow ad avvicinarsi al suo idolo, come a chiedergli maestro, guidami tu da oggi in poi.
Stiamo parlando della puntata numero 5 di The Last Dance, il docu-film di Netflix erroneamente presentato come La Storia di Michael Jordan. Per gli addetti ai lavori o semplicemente per chi è affetto da una incurabile malattia chiamata palla a spicchi, non può esserci errore più grossolano. The Last Dance non è infatti La Storia di Michael Jordan ma il momento più importante di Pallacanestro dal 1979 ad oggi (anno dell’esordio di Earvin Johnson e Larry Bird oltre all’introduzione del tiro da 3 punti).
Sono numerose le critiche: da Karl Malone, a Horace Grant fino allo stesso Scottie Pippen, l’eterno Robin della dinastia Jordaniana. Alcune di queste più che fondate, altre dettate da una storica ed ineliminabile invidia in quanto Michael Jeffrey Jordan non è stato solamente lo sportivo più famoso e significativo di sempre ma molto di più: un modello di business, un trend, un simbolo di intere generazioni.
La verità è che The Last Dance non può non emozionare.
Si parte dalla storia del Jordan adolescente, cresciuto a Wilmington, North Carolina. Le vittorie in NCAA, i primi difficili anni ai Bulls caratterizzati dalle continue sconfitte contro i Bad Boys di Thomas, Dumars e di quel Rodman che qualche anno più avanti si rivelò ”leggermente utile” per la causa Bulls.
Ma è il 1989 a cambiare radicalmente le vite di Chicago, di Michael Jordan, di Scottie Pippen, dell’NBA e la storia del gioco.
Il General Manager Jerry Krause, più volte ed ingiustamente denigrato all’interno della serie, decide di licenziare Doug Collins e promuovere a capo-allenatore Phil Jackson e Tex Winter come assistente. Insieme daranno a vita ad una vera e propria rivoluzione in termini di approccio alla disciplina: il triangolo (triple post-offense) non sarà più solamente uno schema ma una dottrina. Senza quella scelta probabilmente non avremmo assistito a 19 ed indimenticabili anni di un qualcosa che non è uno sport ma una religione alla quale non vorremo mai smettere di pregare.
La cronologia degli eventi si alterna tra flashback passati di Jordan e compagni e l’evoluzione della stagione 1997-1998.
I primi anni novanta sono caratterizzati dal primo Three-Peat, ovvero la vittoria di 3 campionati dal 1991 al 1993. Jordan & Pippen accompagnati da BJ Armstrong, Horace Grant e Bill Cartwright sconfiggono progressivamente i Lakers di Magic (orfani di un ritirato Kareem), i Blazers di Clyde The Glide e i Suns di Sir Charles.
E qui il primo ritiro, le accuse di gioco d’azzardo, la morte di suo padre, il passaggio al baseball e l’immortale ”I’m back”. Il ritorno di Jordan porta ad ulteriori 2 titoli, nelle stagioni 1995-1996 (vittoria sui Seattle Supersonics di Gary Payton e Shawn Kemp), e 1996-1997 (Jazz sconfitti nonostante la pizza avvelenata a Salt Lake City).
Il 1997/1998 è l’anno della svolta: i Bulls si giocano il secondo Three-Peat. Batman & Robin stavolta hanno Ron Harper, Toni Kukoc e Dennis Rodman nello starting five esattamente come nei due anelli precedenti.
Neanche a dirlo: vittoria finale vs Utah con quel The Shot che andrebbe ridipinto all’interno della cappella sistina al fianco del Botticelli.
Alla fine della stagione Michael Jordan annuncia il suo secondo ritiro e buona parte dei suoi compagni vengono ceduti e scambiati.
The Last Dance finisce qui o meglio ufficialmente si conclude in questo modo ma non per chi conosce i successivi 12 anni che saranno altrettanto indimenticabili e di certo irripetibili.
Si perché quello che doveva essere il film su ”La Storia di Michael Jordan” è in realtà la storia di Phil Jackson.
Una storia di emozioni ed analogie che meriterebbe e necessiterebbe un The Last Dance 2.
Un articolo del nostro amico Massimo Mancini