New England, 1970. Paul Hunham (Paul Giamatti) è un insegnante rigoroso e severo, un latinista vecchio stampo che con i suoi voti bassi certo non si fa amare dagli studenti della Barton Academy. A lui viene affidato il compito di assistere gli “holdovers” (diciamo i residui) quattro studenti abbandonati per varie ragioni dalle loro famiglie durante le vacanze di Natale.
Ma alla fine resteranno solo in tre: il severo Paul, il giovane e conflittuale Angus Tully (Dominic Sessa) e la cuoca Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), in lutto per la perdita del figlio in Vietnam.
Alexander Payne ha sempre raccontato personaggi più che storie, sin dai piccoli gioielli come Election, A proposito di Schmidt, Sideways – In viaggio con Jack, ma anche in opere leggermente meno riuscite come Paradiso Amaro e Downsizing – Vivere alla grande.
Ciò che accomuna la sua filmografia è il mondo degli outsider, belli o brutti, buoni o cattivi, non importa, dipende solo da quale occhio guardi (semicit.).
Con The Holdovers – Lezioni di vita, Payne raggiunge la sua piena maturità.
Il film è un instacult, una di quelle pellicole che negli anni diventerà un appuntamento fisso nel periodo di Natale.
Una pellicola equilibrata e rivelatrice, popolare eppure così raffinata, che attinge al passato, ma guarda e pensa al futuro.
Ci sono due chiare reference nel film: una è L’attimo Fuggente di Peter Weir e l’altra è Breakfast Club di John Hughes. Come in questi due classici, il fine ultimo della sceneggiatura di David Hemingson è quello di raccontare il microcosmo (quello della Barton), per arrivare al cuore dell’America oppressiva, desensibilizzata e indolente.
L’approccio di Alexander Payne con la materia invece è diverso nelle intenzioni. Se frega quasi del tutto dell’America ferita dal lutto collettivo del Vietnam, ma cerca, scruta nell’intimo, nel personale dei protagonisti. Nelle loro storie nelle loro emozioni e nelle loro dinamiche, se poi ne esce anche un’affresco sulla società bene venga!
Questo permette al film di elevarsi oltre gli stereotipi del cinema del passato, degli anni ’70 in primis, della New Hollywood, ma anche dello sguardo agrodolce del decennio successivo.
Non cade nei suoi cliché, non ripropone stilemi dal passato. Li prende in prestito e li spolvera come si fa con una vecchia ma preziosa biblioteca, confezionando infine un meraviglioso comfort movie moderno e sincero.