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Sweet Tooth – La recensione

In un futuro post apocalittico l’umanità è stata decimata da un virus chiamato l’Afflizione, misterioso evento pandemico.

La catastrofe umana ha inoltre dato origine agli ibridi, bambini nati con sembianze di animali di ogni genere. Tra di loro anche Gus (Christian Convery) “golosone” (da qui il titolo Sweet Tooth) un piccolo ometto che nonostante le raccomandazioni del padre (Will Forte) fa ancora “stronzate da cervo”. Un’inarrestabile adolescente che cerca disperatamente di raggiungere la madre in Colorado. A fargli compagnia in questo on the road, non privo di insidie, Tommy Jepperd (Nonso Anozie), reietto di una società violenta ed ex militante negli Ultimi Uomini, un gruppo comandato dal Generale Steven Abbot (Neil Sandilands) che ha come unico scopo quello di cacciare questi piccoli ibridi, per usarli come cavie da laboratorio.

Sweet Tooth è una serie originale Netflix sviluppata da Jim Mickle, prodotta da Robert Downey Jr. e dalla moglie Susan e tratta dal fumetto omonimo di Jeff Lemire.

Anche se l’impianto narrativo ruota intorno al piccolo Gus, all’interno di questi (si spera) primi otto episodi, ci sono anche tante altre ministorie che s’intrecciano tra di loro. Come quella di Dottor Aditya Singh (Adeel Akhtar) e di sua moglie Rani (Aliza Vellani), quella dell’impavida Aimee (Dania Ramirez) che, in uno zoo abbandonato, ha costruito una riserva per gli ibridi. E infine l’Armata degli Animali, giovani ed esaltati protettori degli ibridi comandati dalla giovane Bear (Stefania LaVie Owen).

Racconto di formazione tenero e avventuroso, Sweet Tooth è un’esperienza immersiva esaltante per ogni età. La serie fa perno sull’immediata empatia che si crea col piccolo Gus permettendo al coming of age di non perdere mai il passo dell’intrattenimento fantasy in questo crudele mondo dilaniato nei suoi valori fondanti. Impossibile poi non pensare al bellissimo Anna di Ammaniti, col quale la serie Netflix non condivide soltanto i presupposti narrativi.

Ogni episodio è aperto e chiuso dal voice over di James Brolin nella versione originale, che accompagna lo spettatore con un filo di paternalismo, ma anche con un confortevole senso di protezione dalla drammaticità degli eventi esterni.

Ottima la colonna sonora quasi interamente indie folk con brani dei Fleet Foxes, of Monsters and Men, Dawes e tante altre band che si sposano alla perfezione con i paesaggi rurali dell’entroterra statunitense.

Una fiaba distopica con un pizzico di epica disneyana che scalda il cuore parlandoci di diversità, di redenzione, di famiglia, di amicizia e che trova proprio nel finale un nuovo intrigante inizio.

Nella speranza che Netflix, conti in tasca, ne ufficializzi una nuova stagione.