Circa un mese fa Steven Spielberg ha comunicato l’intenzione di produrre una serie basata su Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa.
Una scelta coraggiosa e forse azzardata, dal momento che si tratta di rivisitare una vera e propria pietra miliare della storia del cinema.
Rashomon non solo fece conoscere all’occidente il cinema nipponico, vincendo nel 1951 il Leone D’oro per il miglior film a Venezia.
Il film riesce infatti, a distanza di quasi settant’anni, a emozionare come poche pellicole, fornendo interessanti spunti di riflessione su tematiche ancora attuali.
Kurosawa desidera indagare il relativismo attorno a ciò che può essere definito vero o falso, con un forte senso critico nei confronti dell’ipocrisia e dell’incoerenza che permeano i rapporti umani.
Opta quindi per una struttura intricata e complessa, così da far apparire lo stesso racconto quanto più ambiguo e difficilmente interpretabile.
La storia, tratta da due racconti dello scrittore nipponico Akutagawa, è infatti narrata attraverso un complicato intreccio di flashback, inseriti all’interno di una cornice narrativa che serve ad introdurre giudizi morali riguardanti la vicenda principale.
Kyoto, durante una giornata tempestosa un ladro cerca rifugio dalla pioggia incessante sotto la porta meridionale della città, chiamata appunto Rashōmon.
Lì trova un monaco e un boscaiolo, che sostano di ritorno da un processo a cui hanno assistito.
Sembrano sconvolti: un omicidio è stato commesso nella foresta poco distante, un samurai è stato assassinato da un brigante che ha anche abusato di sua moglie.
O almeno questa è la versione del criminale catturato. Infatti dopo di lui avevano testimoniato sia la consorte del samurai che la stessa vittima, attraverso una medium, fornendo ognuno una versione differente dell’accaduto.
Una volta che il monaco ha finito di riportare le tre testimonianze è il taglialegna a prendere la parola.
Dopo aver accusato le altre versioni di essere menzognere, propone il suo resoconto.
Anche lui infatti è stato testimone del fatto, ma ha preferito non raccontarlo al processo per evitare di venirne coinvolto.
Ma sarà davvero la sua versione quella priva di bugie? Non verrà rivelato quale delle testimonianze sia quella vera.
E, sebbene il finale sembri prospettare una qualche speranza, un senso generale di sfiducia nell’umanità permane una volta giunti ai titoli di coda.
Kurosawa gioca sapientemente con il confine che divide realtà e menzogna, plasmando un film che riesce ad intrattenere nonostante ambisca ad affrontare temi profondi e complicati.
Grazie alle ottime interpretazioni degli attori, specialmente uno strepitoso Toshiro Mifune, e un attenzione maniacale per i dettagli, lo spettatore diventa egli stesso testimone dei fatti raccontati.
Si trova immerso nella foresta dove la vicenda è ambientata, una foresta quasi mistica, idilliaca, fuori dal mondo.
Il perfetto uso del bianco e nero, i giochi di luci/ombre creati dal sole che penetra tra le frasche, donano un forte connotato simbolico ed espressivo ai personaggi.
L’ambiguità, l’assenza di una netta divisione tra bene e male, verità e bugia, traspare non solo dai dialoghi ma da ogni singola inquadratura.
Ma non solo, in Rashomon Kurosawa mette in scena quei valori tradizionali giapponesi, l’onore, il rispetto del prossimo, un forte senso di giustizia.
Valori di cui lui, discendente da una famiglia di samurai, era fiero portatore, ma che vedeva giorno dopo giorno venir meno nel suo Giappone; una nazione che usciva totalmente mutata dalla Seconda Guerra Mondiale.
Impossibile infatti non notare l’analogia tra le macerie della Kyoto feudale del film e quelle del Giappone in ginocchio dopo i bombardamenti statunitensi.
Due mondi cronologicamente distanti ma che hanno qualcosa in comune, ovvero la necessità di ritrovare fiducia e speranza nel genere umano.
Vedremo dunque come Spielberg deciderà di reinterpretare Rashomon, sperando che non finisca per rovinare la memoria di questo capolavoro cinematografico.
Articolo a cura di Alberto Viganò