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Quentin Tarantino: un sogno che divenne realtà

Tarantino

Tutti hanno dei sogni. Chi vive senza sogni, ha una vita vuota: sono i sogni che pongono uno scopo alla nostra esistenza e ci impediscono di vagare senza meta. Non sempre, forse quasi mai, riusciamo a realizzare il nostro sogno. Questo è un privilegio riservato a pochissimi. Uno di questi è Quentin Tarantino.

Chi sia Quentin Tarantino, immagino tutti lo sappiano. Un giovane ragazzo che è cresciuto a pane e celluloide, un giovane commesso di una videoteca losangelina, un ragazzo fortunato che è riuscito a incidere il proprio nome nella pietra della storia del cinema. Creatore di un nuovo cinema che potremmo definire “del riciclo” (espressione da non intendere assolutamente in senso negativo), un linguaggio che accumula al suo interno trovate di film del passato, spesso film di serie B, per reinventare qualcosa di completamente nuovo e mai visto. Lo so, sembra una contraddizione o un paradosso. Ma non lo è. Tarantino trasforma il cinema che da bambino ha fagocitato avidamente: il suo lavoro non è un semplice accostamento fine a sé stesso di citazioni su citazioni.

In questa monografia voglio ripercorrere una carriera fatta di quasi solo alti, senza veri e propri passi falsi, checché se ne dica. Potrebbe essere un viaggio molto lungo, dunque mettetevi comodi. Quando siete pronti, possiamo cominciare.

Pronti?

Tarantino in “My Best Friend’s Birthday”.

MY BEST FRIEND’S BIRTHDAY: L’INIZIO DEL TUTTO

Nelle monografie dedicate a questo regista, ho visto molto raramente citato questo film. E, per me, questo è un peccato, perché già da questa pellicola (di cui ci sono rimasti meno di quaranta minuti) si possono intuire alcune idee che diverranno le fondamenta del cinema tarantiniano, almeno quello del primo periodo: innanzitutto, l’amore morboso che Tarantino prova per la cultura pop immerso nella quale è cresciuto. Uno dei personaggi principali di questa pellicola è ossessionato da Elvis Presley, come lo sarà il protagonista di Una Vita al Massimo, film di Tony Scott ma scritto dallo stesso Tarantino, e il personaggio di John Travolta in Pulp Fiction (anche se questo aspetto di Vincent non risulta troppo evidente nella versione finale del film, se non fosse per una battuta della Thurman, che lo definisce un “Elvis-maniaco”).

Un film in bianco e nero che, pur essendo ancora molto acerbo, già mostra che quello tarantiniano è un occhio addestrato a catturare alla perfezione storie efficaci e forti: un occhio cinematografico tra i migliori degli ultimi 20/25 anni.

LA TRILOGIA PULP: GLI ANNI ’90.

Ve lo dico io di cosa parla “Like a Virgin”. Parla di una ragazza che rimorchia uno con una fava così! Tutta la canzone è una metafora sulla fava grossa.

Questa è la primissima frase recitata in uno dei debutti cinematografici più azzardati e riusciti della storia: Le Iene, un film che racconta i momenti successivi ad una rapina fallita, senza mai mostrare la rapina stessa. Ciò che vediamo in un’ora e mezza sono solo dialoghi, post-rapina o pre-rapina, grazie ad un egregio utilizzo dei flashback. E l’incipit è estremamente straniante, nell’ottica del film: perché mai dei rapinatori dovrebbero parlare di “Like a Virgin” di Madonna prima di una rapina? Non lo sappiamo. Un senso non c’è. Ma, all’interno dell’universo di Tarantino, è un discorso perfettamente pertinente alla situazione. Questo dialogo assolutamente sbarellato è scritto talmente bene che, durante la visione, non viene nemmeno da pensare “ma che senso ha questa cosa?”. Tarantino ci cattura sin dal primissimo secondo, quando ancora lo schermo è nero. E dal primo all’ultimo secondo, noi pendiamo dalle labbra (e dall’inchiostro) del nostro Quentin.  La narrazione che sceglie di usare è debitrice, almeno parzialmente, ad uno dei primissimi capolavori del più grande cineasta di sempre, Rapina a Mano Armata di Stanley Kubrick: ed ecco un’altra caratteristica che diventerà un marchio di fabbrica del cinema tarantiniano, la non-linearità della narrazione.

Travolta e Jackson in una scena iconica di Pulp Fiction.

Questa caratteristica verrà portata agli estremi nel suo film successivo, Pulp Fiction (1994): questo film è quello che farà ascendere Tarantino nell’Olimpo del cinema e che gli è valso una Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale. La storia è, almeno nell’idea originale, piuttosto semplice ma viene complicata dal modo in cui Tarantino ha deciso di raccontarla: le storie e i rispettivi “piani temporali” si intrecciano e si accavallano più e più volte. Nonostante ciò, però, l’intelligibilità del film non assolutamente compromessa: anche quando un personaggio che abbiamo visto morire riappare in scena qualche minuto dopo, non ci chiediamo come sia possibile, perché il modo in cui Tarantino ha scritto la sceneggiatura ci trascina all’interno della narrazione e noi diventiamo parte vivente del film. La storia segue le vicende di due gangster (Vincent, interpretato da John Travolta, e Jules, Samuel L. Jackson) che si intrecciano con quella di Butch, un boxeur alla fine della propria carriera (Bruce Willis), quella di Mia Wallace (Uma Thurman), la moglie di Marsellus, il capo di Vincent e Jules. I personaggi che entrano ed escono di scena sono unici e indimenticabili, tutti caratterizzati alla perfezione: dal pugile affezionatissimo ad un orologio ereditato dal padre, morto in guerra (indimenticabile il cameo di Christopher Walken, che racconta la lunga epopea che ha coinvolto tale oggetto, il suo passaggio di generazione in generazione, di sfintere in sfintere), a Jules che si sente miracolato dopo essere uscito vivo da una sparatoria e che vive una crisi mistica. Non solo i protagonisti, ma anche i personaggi secondari sono stupendi: come potrebbe un personaggio come mr. Wolf (Harvey Keitel) non venire ricordato per sempre, un personaggio che, a mio avviso, dovrebbe essere annoverato tra i migliori personaggi mai creati, anche solo per come si presenta alla porta di Jimmy (il personaggio di Tarantino), con quella frase semplice ma che lascia senza fiato, a bocca aperta, “Sono il signor Wolf, risolvo problemi”. Una sola frase che descrive uno dei personaggi più carismatici mai apparsi al cinema, nonostante la breve durata della sua comparsa. In questo film, Tarantino ha scritto i migliori dialoghi della sua intera filmografia, senza ombra di dubbio.

Passano tre anni prima di giungere al terzo lungometraggio di Tarantino nel corso dei quali egli produce un film ad episodi, nel quale lui dirige la quarta ed ultima parte, Four Rooms, al quale partecipa anche il grande amico Robert Rodriguez. Il film, nel complesso, però, è un fiasco, salvato solo dalla straordinaria prestazione sopra le righe di Tim Roth, che compare anche in Pulp Fiction, nel ruolo di Zucchino, e ne Le Iene, e dai due episodi diretti dai due registi sopra citati: la storia è quello di un fattorino (Tim Roth) che deve servire quattro camere di un hotel la notte di Capodanno, finendo invischiato in situazioni paradossali e, nel caso soprattutto del primo episodio, ridicole (inteso decisamente non nel senso positivo del termine).

Conclusa questa parentesi, nel 1997 giunge il terzo capolavoro consecutivo di Quentin (e, a mio avviso, il secondo con la “c” maiuscola): Jackie Brown, un film che, purtroppo, è molto spesso sottovalutato, sia dai fan che dai detrattori di Tarantino. Ma, secondo me, è, insieme a Pulp Fiction, IL suo capolavoro. Il motivo è semplice: fino a questo momento, Tarantino si è sempre posto come regista sopra le righe, con una narrazione molto frammentaria. Con questo film, invece, ci consegna un’opera molto più posata, caratterizzata da toni estremamente più pacati rispetto al predecessore, adattando il romanzo Rum Punch di Elmore Leonard (autore che ha sempre accompagnato la vita di Tarantino). Anche la narrazione è più lineare e tradizionale, eccezion fatta per la sequenza al centro commerciale, che viene ripetuta tante volte quanti sono i personaggi coinvolti, rappresentata ogni volta da un punto di vista diverso: in precedenza, parlando de Le Iene, ho citato Rapina a mano armata come fonte di ispirazione. In questo caso il paragone è ancora più azzeccato, perché anche la rapina nel film di Kubrick viene raccontata esattamente allo stesso modo della scena in questione di Jackie Brown. E, soprattutto, ci consegna un prodotto amaro: non c’è spazio per l’ironia che ha caratterizzato i film precedenti, se non in un paio di situazioni. Probabilmente quest’ultimo aspetto è quello che più ha fatto storcere il naso a coloro che non hanno apprezzato questo film. Il cast di questo film è veramente eccezionale: Pam Grier interpreta la protagonista, Jackie Brown; Samuel L. Jackson è Ordell, uno spacciatore d’armi da fuoco; Robert De Niro è Louis, un rapinatore di banche appena uscito di galera (unico personaggio memorabile interpretato da De Niro degli ultimi vent’anni, circa); Robert Forster interpreta Max, un garante di cauzioni; infine, ultimo ma non meno importante, Michael Keaton, un poliziotto che tormenta Jackie.

I PRIMI ANNI DUEMILA: IL CINEMA DI GENERE TORNA DI MODA

Diversi anni passano tra Jackie Brown e Kill Bill, il primo film degli anni duemila diretto dal nostro Tarantino. Tutti gli amanti del cinema dovrebbero essere grati a questo film perché, proprio grazie ad esso, in Occidente è tornato il cinema di genere orientale, come il wuxia cinese/hongkongese (il primo esempio che mi viene in mente è un film meraviglioso come Hero di Zhang Yimou) e centinaia, se non migliaia, di altre pellicole dell’estremo oriente: se in Occidente possiamo gustarci dei film come quelli della trilogia della vendetta di Park Chan-wook (Mr. Vendetta, Oldboy, Lady Vendetta) è solo grazie all’influenza di Kill Bill e di Tarantino.

Spesso, parlando di Kill Bill, c’è un fraintendimento riguardo alla suddivisione in due volumi del film, che talvolta vengono visti come due film diversi. Ma la verità è ben diversa: il film è uno solo suddiviso in due parti solo perché i produttori non volevano far uscire nelle sale un film di 5 ore. E, posto di fronte alla scelta tra tagliare molte parti del film e farlo uscire suddiviso in due volumi, Tarantino ha optato per la seconda. Di certo ci sono delle differenze tra i due volumi: il primo è più debitore al cinema d’arti marziali (ad esempio, i film di Bruce Lee, in particolare L’ultimo combattimento di Chen) e a film come Lady Snowblood, capolavoro semisconosciuto di Toshiya Fujita, mentre il secondo ha atmosfere più occidentali, ispirate principalmente al cinema western italiano. Il tutto, però, è perfettamente organico e le diverse ispirazioni si uniscono e si accostano egregiamente. E qui torniamo a quanto scritto a inizio monografia: le citazioni non sono fini a sé stesse ma diventano un tutt’uno negli occhi dello spettatore. Per fare un paragone culinario, il citazionismo tarantiniano è un frullato: i sapori si distinguono ma non si riesce ad individuare il singolo frutto, poiché tutti sono perfettamente mischiati.

Uma Thurman nella scena iniziale di Kill Bill.

L’anno successivo, appare come guest star director in Sin City, film estremamente particolare del suo amico Rodriguez. Non c’è molto da dire in merito, nell’ambito di una monografia su Tarantino, quindi passiamo oltre: Grindhouse – A prova di morte. Secondo film estremamente criticato e poco apprezzato, dopo Jackie Brown, è parte di un “duetto” di film ispirati alle grindhouses americane, in cui venivano proiettati film di serie b, spesso di stampo horror, realizzati con budget ridottissimi: l’altra parte è diretta dal suo solito amico ed è Grindhouse – Planet terror. A prova di morte è un film che, al di fuori dei confini americani, è difficilmente apprezzabile poiché nasce come omaggio ad un cinema che è nato, cresciuto e morto esclusivamente in territorio statunitense, quello delle grindhouses, appunto. Il film è un buon “slasher ma senza le caratteristiche dello slasher”, come dice lo stesso regista. Qui, Tarantino, dà una prova registica veramente eccezionale, con delle scene d’azione che rasentano (se non, addirittura, raggiungono) la perfezione stilistica, come quella dell’incidente, un puro capolavoro di regia e montaggio. Nonostante che molti definiscano A prova di morte come un film minore di Tarantino, io lo considero come l’ennesimo colpo riuscito del genio di Knoxville, che torna, con questo film, su territori profondamente pulp, ai quali, probabilmente, deve buona parte del suo successo da regista.

DAL 2009 AD OGGI: UN CINEMA NEL PASSATO

Il 2009 segna quel periodo del cinema di Tarantino in cui i film sono sempre ambientati nel passato, un passato talvolta distorto per favorire la follia del nostro Quentin, e, soprattutto, quel periodo in cui abbandona definitivamente la narrazione frammentaria (già abbandonata in Grindhouse), favorendo uno svolgimento della trama più lineare, con qualche raro e breve flashback. E’ questo il caso di Bastardi senza gloria, ambientato nel periodo dell’occupazione nazista in Francia. Il film è stato ispirato da “Quel maledetto treno blindato” di Enzo Castellari. Il film è l’ennesima opera che sfiora lo status di capolavoro e si diverte a distruggere la Storia per adattarla al gusto dell’autore (si pensi , ad esempio, alla fine che fa Hitler). Un gruppo di ebrei, guidati dal tenente Aldo Raine (Brad Pitt), decidono di sterminare tutti i soldati nazisti che incontrano e di prendere il loro scalpo, mentre una ragazza ebrea, Shoshanna (Mélanie Laurent), scampata al colonnello Hans Landa (Christopher Waltz), deve resistere alle avances di un eroe nazista. Ancora una volta Tarantino realizza un film al quale gli amanti del cinema dovrebbero essere riconoscenti, perché regala al mondo quell’attore fenomenale che è Christoph Waltz, che interpreta uno dei cattivi più riusciti della storia del cinema, un diamante di cinismo, cattiveria e intelligenza. Bastardi senza gloria è un film sopra le righe ma che ha un andamento lento: sono due ore e mezza di film che non scorrono rapide ma, al tempo stesso, non annoiano e, anzi, coinvolgono lo spettatore. Probabilmente il film più “semplice” dell’intera carriera tarantiniana, presenta comunque delle trovate geniali sia a livello di dialoghi che di azioni (la scena alla taverna, secondo me, andrebbe studiata in qualsiasi corso di sceneggiatura e, in generale, di scrittura)

Per il film successivo, la macchina del tempo che è la penna di Tarantino ci fa viaggiare ancora più indietro: siamo nel Texas del 1858, quando lo schiavismo era ancora una triste realtà. La storia di Django Unchained è quella di un revenge movie in cui la vendetta viene guidata e benedetta dalla pistola e dalla mira infallibile di Django (Jamie Foxx), liberato da un cacciatore di taglie, ed ex dentista, tedesco, il dottor King Shultz (Christoph Waltz). Il loro scopo è quello di liberare la moglie di Django (Kerry Washington) dalla piantagione di Calvin J. Candy (Leonardo Di Caprio). La trama, dunque, non è delle più originali ma questo poco importa: i dialoghi sono, come al solito, straordinari la regia è, a mio avviso, la migliore mai realizzata da Tarantino e le interpretazioni degli attori sono fantastiche, in particolare quella di Waltz e di Di Caprio. Alcune immagini catturate dalla camera Tarantino, coadiuvato anche dalla fotografia di uno dei massimi cinematographer contemporanei, Robert Richardson (che ha curato la fotografia di tutti i film del nostro Quentin da Kill Bill in avanti, ad eccezione di Grindhouse), sono spettacolari. Personalmente, la singola inquadratura più bella di questo film e dell’intera filmografia tarantiniana è quella dello schizzo di sangue sul cotone, un’immagine potentissima sia a livello visivo che concettuale, poiché quel sangue non è quello di uno schiavo bensì di uno schiavista: con una singola inquadratura si ha la sintesi di oltre due ore e mezza di film. Questo è un film denso di riferimenti al cinema western, soprattutto quello italiano, come dichiarato sin dal titolo (Django è il titolo di un film di Sergio Corbucci e interpretato da Franco Nero, che fa una comparsata in Django Unchained, nella scena in cui viene introdotto il personaggio di Calvin).

Una delle inquadrature più famose di Django Unchained.

E, finalmente, giungiamo alla fine di questo viaggio attraverso oltre vent’anni di carriera. The Hateful Eight è un film che ha avuto una lunga e travagliata gestazione, tra annunci, leak della sceneggiatura che hanno rischiato di far cancellare il film e litigi con la Disney. Nonostante tutte le peripezie vissute da Tarantino e dalla produzione del film, all’inizio del 2016 il film è approdato nei cinema italiani. Purtroppo non ho avuto la fortuna di vederlo in una delle sale che lo proiettavano in pellicola 70mm però la visione, anche in formato digitale, è comunque devastante e potentissima, con inquadrature grandangolari che donano un fascino alle immagini che raramente si vedono al giorno d’oggi. Quando lo andai a vedere il primo giorno di proiezione, uscii dal cinema provato: non perché il film fosse troppo lungo ma a causa (o grazie) alla sua incommensurabile bellezza. E’ stata una delle esperienze più belle che io abbia mai vissuto in una sala cinematografica, insieme a quella della visione di 2001: Odissea nello spazio in pellicola 70mm, nell’ambito di una retrospettiva su Kubrick di un paio d’anni fa a Milano. The Hateful Eight è stato spesso criticato per essere troppo verboso ma io non vedo questa sua logorrea come un difetto: quando i dialoghi sono scritti alla perfezione, l’azione non è fondamentale. Anzi, azzarderei addirittura a dire che una maggior azione in questo film sarebbe stata inutile, poiché questo è un film che non vive di eventi mostrati ma di eventi narrati: l’azione è ridotta al minimo ma è sempre di una forza visiva impressionante.

The hateful eight

La storia è quella di otto persone che sono costrette da una tormenta a passare qualche giorno in un emporio sulla strada per Red Rock. Questo è quanto basta sapere prima di vedere il film, nel caso non lo abbiate ancora visto. Tutto il film è strutturato, almeno come idea di base, in maniera simile al debutto di Tarantino stesso, Le Iene, e a La Cosa, uno dei massimi capolavori di John Carpenter. Tarantino riesce a creare tensione solo per mezzo di dialoghi e di qualche boccone d’azione: dall’inizio alla fine nessuno, né i personaggi né lo spettatore, si fida di nessuno.

Come concludere questa monografia, dunque? Con una confessione/ammissione di colpa probabilmente, durante questo excursus sono stato poco obbiettivo, perché sono particolarmente legato al cinema di Tarantino poiché è stato il mio primo approccio alla settima arte. E’ grazie a questo regista se la mia vita è diventata “cinecentrica”, se sogno di vivere di film, se sogno, proprio come sognava Tarantino alla mia età, di diventare regista. Tarantino è un po’ un padre adottivo.  Un regista che ha dato inizio ad un nuovo modo di fare cinema non può che stare nell’Empireo del cinema, accanto ad altri mostri sacri come Stanley Kubrick, Ingmar Bergman, Akira Kurosawa e molti altri. Quello di Tarantino è un cinema unico pur nascendo dalla convivenza di un’immensità di influenze diverse, un cinema geniale perché il genio è colui che crea un nuovo modo di produrre un’opera d’arte. Il collage cinematografico “à la Tarantino” è diventato un elemento ricorrente nelle produzioni degli ultimi vent’anni, molti imitatori del suo stile sono nati e si sono affermati ma nessuno potrà mai raggiungere la sua grandezza. Tarantino è un regista che o si ama o si odia: e sia da una parte che dall’altra, ci sono ottimi motivi. Io, personalmente, lo amo.

Articolo a cura di Federico Querin