LA TRILOGIA DELLA DEPRESSIONE: IL PIANTO DI TUTTE LE COSE CHE SONO DESTINATE A MORIRE.
Depressione, melanconia, autodistruzione sono compagne costanti di Lars Von Trier, nel corso della sua vita; sono tre elementi ricorrenti nella sua filmografia che esplodono in tutta la loro carica di negatività nell’ennesima trilogia firmata LVT: la trilogia della depressione, che si è sviluppata tra il 2009 ed il 2013 e comprende, nell’ordine, Antichrist, Melancholia e Nymphomaniac. Si tratta di tre film che violentano la psiche dello spettatore, mettendo a nudo quella del regista, che ha compiuto una sorta di auto-psicanalisi, analizzando la propria depressione. Diversi temi attraversano come un fil rouge il trittico di film, come il totale disfacimento della famiglia, la natura come causa del male e del dolore ed il sesso, non più visto come veicolo di piacere ma come arma distruttiva.
Il percorso negli angoli più bui della mente del regista danese ha inizio con Antichrist, un film horror in piena regola sul quale non ci soffermeremo troppo, avendolo già recensito su Jamovie (potete trovare la recensione qui). È la storia di una coppia che perde il figlio, caduto dalla finestra mentre i due stavano avendo un amplesso. La donna cade in una profondissima depressione e il marito, un terapista di successo, prova ad aiutarla a superare la crisi, portandola nella casa nel bosco, chiamato Eden, in cui la donna ha passato del tempo con il figlio non molto prima, mentre lavorava ad una ricerca sulla storia del ginocidio (lo sterminio delle donne nel corso dei secoli). Si tratta di un’opera estremamente ostica, probabilmente la più difficile da assimilare tra le tre, per via della sua violenza fisica e psicologica: è un film che fa male. Tanto male. Abbatte ogni barlume di positività nello spettatore e “stupra” la sua mente anche per mezzo di alcune immagini subliminali difficilmente visibili senza mettere in pausa il film, come le espressioni disperate di Charlotte Gainsbourg mentre la coppia è sul treno, che appaiono in sovrimpressione, leggermente opache, tra i cespugli che scorrono rapidi al di fuori del finestrino. Antichrist è un film non solo sulla depressione ma anche sulla radice di ogni male: la Natura. Quella stessa “Natura matrigna” di leopardiana memoria che genera così tanto dolore in tutto ciò che vive, la “chiesa di Satana” abitata da anime sofferenti. La famiglia, in Antichrist, si sgretola sotto i feroci ed impietosi colpi della psiche devastata dalla depressione: il figlio muore, i due coniugi arriveranno a farsi del male, fino a quel tragico e meraviglioso finale che riprende, in una ringkomposition, l’inizio, con la stessa colonna sonora (la bellissima aria Lascia ch’io pianga tratta dal Rinaldo di Händel) e il medesimo uso del bianco e nero.
Passano due anni ed il mondo viene ancora gettato nella tetra ombra della depressione: esce Melancholia, nel 2011. Ancora una storia in cui la famiglia si sgretola, ancora una storia in cui la natura viene dipinta a tinte cupe. In un’ottica differente, però. Vediamo, in breve, la trama, che si suddivide in due parti: nella prima, Justine (Kristen Dunst) si sposa ma il matrimonio non ha vita lunga. Lei e il marito, infatti, si separeranno alla fine del ricevimento; nella seconda, Justine, anche lei, come la protagonista del film precedente, in un profondo stato depressivo, viene ospitata dalla sorella Claire e dal cognato John. Intanto, un pianeta chiamato Melancholia sta per passare vicino alla Terra, anche se alcuni, Claire inclusa, temono che si possa scontrare con il nostro pianeta. Il senso della fine, della catastrofe, ricorre spesso nell’opera di artisti melanconici: è il caso del Leopardi (pensiamo, ad esempio, all’eruzione del Vesuvio de La ginestra) ed è il caso di Von Trier e del pianeta Melancholia. La Terra è allo scadere del suo tempo, entro poco verrà distrutta. Mentre c’è chi prova ad aggrapparsi alla speranza che il pianeta passerà solo accanto al nostro, altri temono che i due mondi si schianteranno. Justine non ha paura, lei sa (la sua è una certezza, non un’ipotesi, perché lei “sa le cose”) che Melancholia distruggerà la Terra ma non se ne dispiace. È semplicemente il funzionamento dell’Universo e non dobbiamo piangere per la Natura, perché “la Terra è malvagia”. Anche in Melancholia, come nel precedente film ed in quello successivo, assistiamo al disfacimento del matrimonio, simbolo di un amore che ormai non siamo più in grado di sostenere: Justine ed il marito si separano poche ore dopo la cerimonia nuziale, per esempio, ma anche il matrimonio tra Claire e John non avrà un lieto fine e tra i due nasceranno ben presto degli screzi sia a causa sia di Justine che di Melancholia. Gli unici momenti che donano dei brevissimi istanti di sollievo sono quelli dedicati al figlio di Claire e John, molto legato a Justine, che lui chiama “zietta spezzacciaio”, un bambino molto tenero ed aspirante scienziato che suscita simpatia nello spettatore.
Nymphomaniac, il coronamento di questa teterrima trilogia, uscito nel 2013, ha le proporzioni di un’epopea, è un viaggio epico nella biografia di Joe, interpretata dalla solita Gainsbourg, una sessodipendente (termine che detesta), dalla sua infanzia fino alla sua maturità. Il racconto di una vita con pochissime luci che non fanno altro che far risultare il buio della sua esperienza ancora più cupo: il palcoscenico di questa narrazione è la camera da letto di Seligman (Stellan Skarsgård, attore feticcio di Von Trier che fa la sua prima comparsa in questa trilogia in Melancholia), un uomo solitario e coltissimo che ritrova Joe malmenata in un vicolo dietro casa sua e che la porta nella sua umilissima dimora, dove si prende cura della donna. La storia di Joe è una matassa che si sviluppa attraverso suggestioni esterne alla sua esperienza che ritrova in quel ecosistema da eremita che è la casa di Seligman, che sia una macchia di tè sul muro, una cassetta audio nel registratore o un dipinto nascosto per metà dietro un mobile. E tutte queste ispirazioni visive si traducono nella geniale presenza di scritte ed immagini in sovrimpressione, come nella scena in cui una ancora giovane Joe parcheggia l’automobile di Jerome, il suo datore di lavoro, nonché colui che da ragazzino le aveva sottratto la verginità, imprimendo nella memoria di lei due numeri, 3 e 5, ed extradiegetiche che attingono direttamente dalla tradizione del meraviglioso cinema sovietico degli anni ’20, quello di Ejzenstejn e del montaggio delle attrazioni: come dimenticare la metafora di uno dei tanti amanti di Joe con un ghepardo o l’accostamento del sesso orale alla rapala o, ancora, il sacco di patate? Zwei Bilder nur ein Rhamen cantano i Rammstein in Führe mich, il brano che sentiamo nella sequenza iniziale, “Due immagini in una cornice”.
La sessualità distorta di Joe la ha accompagnata attraverso un percorso che le ha fatto provare ogni possibile esperienza erotica, dal sesso etero più “tradizionale” a quello omosessuale a quello violento. Delle tre opere che compongono questa trilogia, Nymphomaniac è, senza dubbio, il più cupo e crudele, sin dalla sequenza incipitaria. Infatti, tutti e tre i film iniziano con una scena di una bellezza devastante (quella di Antichrist è la migliore), tuttavia, mentre le due precedenti sono accompagnate da una musica d’accompagnamento classica, quella di Nymphomaniac è accompagnata da suoni diegetici che descrivono un luogo freddo, vuoto, isolato ed opprimente, fino a che ci viene mostrata una mano di Joe. A questo punto, ha inizio la colonna musicale del film, con una canzone che non è tratta dalla tradizione classica ma è un pezzo industrial metal, il già menzionato Führe mich, un brano piuttosto heavy ben lontano da quello a cui Von Trier ci aveva abituati in Antichrist e Melancholia.
Quanto detto per i due capitoli della trilogia precedenti circa la disgregazione dei legami famigliari viene qui estremizzato ed ampliato a qualsiasi forma d’amore. Joe è incapace di amare, da giovane si ribella all’amore e alla società che su esso si fonda e da grande non riesce a mantenere alcun rapporto anche solo lontanamente basato sull’amore; chiunque le abbia voluto bene si allontana da lei come un polo negativo si allontana da un altro polo negativo, portandosi via una parte della sanità mentale di lei, che cade sempre più nella disperazione, un buco nero privo di qualunque sentimento positivo. “Sono un pessimo essere umano”. Così si presenta Joe a Seligman. Una manciata di parole che riescono a descrivere alla perfezione la dimensione esistenziale entro cui la protagonista di Nymphomaniac si muove e dove il completo disprezzo di sé stessa è di gran lunga più opprimente e devastante di quello per il genere umano. Perché, in fondo, Joe ha ancora un piccolo spiraglio di fiducia nel prossimo, mentre per sé stessa prova solo odio e rabbia. Tuttavia, Von Trier, dopo aver mostrato allo spettatore quello spiraglio, decide di annichilire anche quello, nel meraviglioso quanto devastante finale.
Interessante è anche sottolineare la riflessione sulla situazione culturale moderna portata avanti dal regista in questo film, che, da questo punto di vista, è una sorta di duello tra Joe e Seligman: la prima è l’essere umano comune, il secondo è la Cultura, con la c maiuscola. Durante la narrazione di Joe, Seligman interviene con degli aneddoti o con delle curiosità che ha trovato nelle migliaia di libri che ha letto nella sua vita, venendo, tuttavia, o completamente ignorato dalla donna oppure criticato, come nel caso dell’incursione sul nodo utilizzato da K nel capitolo “The Eastern and Western Church (The silent duck)”, alla quale Joe risponde con un secco “Questa è stata la sua incursione più debole”. Quando la cultura prova ad insinuarsi nella vita dell’uomo comune, questo la evita perché nel mondo moderno, che sta a poco a poco cadendo in un sempre più turpe squallore, non c’è posto per la cultura. La modernità è decadimento ed ignoranza.